Come cambia la cultura del lavoro. Intervista a Carla Bellavia di Groupama

Trasformarsi: come evolve la cultura del lavoro. Intervista a Carla Bellavia

Feltrinelli Education ha curato per Groupama un percorso formativo sulla cultura della trasformazione. Abbiamo chiesto alla Direttrice delle Risorse Umane di Groupama come si sta trasformando il mondo del lavoro. E chi lo abita.

01/03/2023 , tempo di lettura 6 minuti

La necessità di saper leggere e interpretare le trasformazioni si mostra con particolare evidenza durante i grandi periodi di crisi: così è stato con la pandemia globale di Covid-19, che ha imposto radicali mutamenti non solo nelle pratiche quotidiane della vita sociale e professionale, ma soprattutto ha avviato – o accelerato – una trasformazione della cultura del lavoro, imprimendo un segno profondo in desideri, ansie e aspettative dellə lavoratorə. Un riposizionamento, si potrebbe dire, del ruolo stesso della realizzazione professionale nel quadro della vita, con nuove consapevolezze e nuove priorità, tra i tentativi di trovare un nuovo work-life balance capace di renderci più felici. Abbiamo recentemente dato il nostro punto di vista in alcuni approfondimenti, come la prima newsletter di Galileo, la nuova rassegna stampa mensile di Feltrinelli Education, e in un articolo del nostro magazine dedicato al fenomeno del quite quitting. Ma delle trasformazioni in atto, e delle possibili risposte da mettere in campo, abbiamo voluto parlare in particolare con Carla Bellavia, Direttrice Risorse Umane, Organizzazione e Comunicazione di Groupama.

 

La collaborazione tra Feltrinelli Education e Groupama, infatti, ha dato vita a un progetto formativo sulla cultura della trasformazione dedicato al team di questa grande compagnia assicurativa. Un percorso prezioso di approfondimento, strutturato in modo ibrido in tre webinar con autori d’eccezione, video on-demand, percorsi di self-work e un evento finale in presenza presso il MAXXI di Roma. L’obiettivo: affinare e rafforzare gli strumenti necessari a leggere le trasformazioni del presente, costruire relazioni professionali significative e un ambiente di lavoro virtuoso per sviluppare tutto il potenziale umano del team. Perché, insieme al mondo, anche il modo di intendere la relazione personale con l’azienda e di pensare al proprio work-life balance sta cambiando. 

 

Carla Bellavia, vorremmo iniziare la nostra chiacchierata chiedendoti il tuo punto di vista – privilegiato, data la grande esperienza nelle risorse umane – su quel fenomeno chiamato Great Resignation, il movimento di licenziamento di massa nato negli Stati Uniti come protesta attiva contro le mancate tutele da parte dei grandi gruppi e del governo, che ha preso piede durante la crisi sociale, economica e culturale innescata dal covid. L’ondata sembrerebbe avere investito anche il nostro Paese: certamente la nostra opinione pubblica, visto quanto se ne parla, ma in buona parte anche il mercato del lavoro, se nei primi nove mesi del 2022 ci sono state in Italia 1,6 milioni di dimissioni spontanee, secondo i dati del Ministero del Lavoro. In italiano, potremmo tradurre la locuzione come Grande Licenziamento, ma anche come Grande Rassegnazione. Osservando l’umore di chi vive il mondo del lavoro, dentro e fuori Groupama, noti più rassegnazione nei confronti delle criticità e stagnazioni del mercato del lavoro o piuttosto un moto di insofferenza e rivolta attiva verso le sue storture?

 

In realtà non sono così sicura che il dinamismo che stiamo osservando nel mercato del lavoro da un anno a questa parte sia del tutto assimilabile alla “Great Resignation”: la realtà del lavoro nel nostro paese è molto diversa da quella statunitense, le carriere sono vissute e percepite in modo differente. Sicuramente la pandemia ha modificato gli equilibri e ha fatto scoprire la flessibilità e il valore di un miglior bilanciamento tra lavoro e vita privata anche ai più scettici: paradossalmente le restrizioni imposte dal COVID hanno penalizzato le libertà personali ma hanno avuto un effetto virtuoso nel creare un momento di discontinuità nelle nostre vite contaminate dalla spinta consumistica e la ricerca del successo a tutti i costi, facendoci riscoprire valori più primordiali e umani, come la famiglia, la salute, le relazioni.

D’altra parte, almeno nella nostra esperienza aziendale i casi di persone che si sono dimesse negli ultimi due anni per “cambiare vita” sono veramente pochi, per la maggior parte chi si dimette lo fa per cogliere una nuova opportunità lavorativa, a volte nello stesso settore, per guadagnare di più o per una promozione. Ovvero le stesse ragioni che hanno sempre portato le persone a cambiare lavoro: con la differenza fondamentale che adesso è più facile, perché il mercato del lavoro in Italia non è mai stato dinamico come in questo momento e la disoccupazione non era così bassa dagli anni ’60. Trovo che in Italia si parli molto di Great Resignation e poco dei fattori che hanno innescato l’attuale esplosione di assunzioni nel nostro Paese: sicuramente c’è un effetto recupero di oltre un anno di immobilismo, c’è l’effetto Quota 100, con l’aumento degli accessi a pensione negli ultimi anni che ha creato nuove opportunità di inserimento, c’è sicuramente un tema di ripresa economica e forse c’è anche dell’altro. Credo si dovrebbe parlare di più di tutto ciò per capire cosa sta succedendo veramente.

È fuor di dubbio, comunque, che i due anni appena trascorsi abbiano cambiato qualcosa in termini di aspettative e di percezione del lavoro. L’effetto si vede soprattutto “in entrata” più che “in uscita”: i candidati sono più esigenti e tengono in considerazione non solo le condizioni economiche, ma anche il contesto, la formazione, i benefit, la possibilità di lavorare da remoto, la cultura aziendale.

 

Ci sembra interessante come rilevi una nuova e maggiore vitalità del mercato del lavoro e, contemporaneamente, un progressivo innalzamento delle aspettative e degli standard dellə applicanti. Nella vecchia hustle-culture, per così dire, lə candidatə non si sentivano altrettanto sicurə di poter mettere sul tavolo le proprie esigenze già in fase di selezione. Può avere a che fare con quelle trasformazioni della cultura del lavoro cui abbiamo accennato? Sembra che la professione stia assumendo un diverso ruolo nella vita delle persone; o forse qualcosa si è incrinato nel tradizionale e storico rapporto tra lavoratorə e azienda. Questo rapporto era portatore di un significato e una funzione fondamentali: mettere in relazione virtuosa individuo e società, inserendo in un discorso condiviso ambizioni e aspettative individuali, da una parte, e percorsi e prospettive di sviluppo collettivi e sociali, dall’altra. Lə lavoratorə, dunque era e si sentiva parte di qualcosa di più grande che rendeva possibile aderire con convinzione a un progetto comune. Questo engagement è ancora possibile? E a quali condizioni, con quali strumenti? 

 

La risposta è affermativa, anzi l’engagement è come mai prima al centro dell’agenda manageriale, con la consapevolezza che il livello della sfida si è alzato. Le aziende, soprattutto le multinazionali che hanno sposato lo smart working con maggiore convinzione, non sono più un luogo dove andare ogni mattina. E quindi? Dobbiamo diventare qualcosa a cui “appartenere”, a prescindere dalla presenza fisica e dall’ordine gerarchico. Come sviluppare questo tipo di adesione? Non esistono ricette e soluzioni e strumenti dipendono anche dalle caratteristiche anagrafiche della popolazione di un’azienda, dalla sua storia, dal settore a cui appartiene.

Sicuramente ci sono alcuni ingredienti sui quali è necessario puntare: uno stile manageriale partecipativo, che incoraggi responsabilità individuale, lavoro per obiettivi, agilità. Anche gli strumenti di lavoro devono essere adeguati: piattaforme collaborative per il lavoro a distanza, accesso facilitato alle informazioni.

 

Il lavoro agile, improvvisamente divenuto imprescindibile, sembrerebbe avere indicato una via di maggiore integrazione tra ritmi e obiettivi del lavoro e i bisogni personali dellə lavoratorə. Anche così, come giustamente indichi, si fa engagement: lə lavoratorə si lascia coinvolgere se il lavoro non entra in opposizione esclusiva con il proprio ideale di vita quotidiana. In questo senso, il lavoro agile può essere una risposta, seppure vi siano posizioni contrastanti: c’è chi crede che possa aiutare, chi invece teme possa segnare una disaffezione definitiva dal posto di lavoro. Lə giovani lavoratorə, secondo te, nutrono il sospetto che i bisogni individuali siano in opposizione a quelli aziendali? Perché ciò non avvenga devono poter percepire il lavoro come una parte attiva e positiva della propria vita. Come ci si prende cura dellə propriə dipendenti in una modalità che non sia puramente assistenzialistica ma motivante e “pro-attivante”?

 

Personalmente non ho mai visto vita e lavoro come in opposizione, ma è indubbio che possa esserci questa percezione. Il lavoro agile ha svolto un ruolo ambivalente: in tutti quei casi in cui le aziende hanno gestito la pandemia come un’opportunità per valorizzare il contributo di ciascuno per garantire la continuità, investendo su digitalizzazione, gestione, formazione, l’effetto è stato positivo. Le persone hanno toccato con mano la capacità di reazione, l’orgoglio di dare un contributo, la serenità che garantisce un posto di lavoro sicuro. Ma non possiamo ignorare che in molti casi il lavoro agile, soprattutto quando imposto in realtà non preparate a gestirlo, ha in realtà ampliato le diseguaglianze, rendendole più evidenti, fino a penalizzare le fasce più deboli. Credo quindi che si debba valutare caso per caso.  

Noi siamo partiti da un presupposto: la persona, l’individuo. Uno dei paradossi della pandemia è stato che mentre eravamo confinati abbiamo scoperto i colleghi nella loro dimensione di donne e uomini con delle vite “fuori” dall’ufficio: li abbiamo visti nelle loro cucine e salotti, abbiamo assistito alle irruzioni dei loro cani e gatti mentre eravamo in videoconferenza con loro, agli abbracci dei loro bambini. Ci siamo mossi da lì: abbiamo sposato il modello organizzativo ibrido, che prevede alcuni giorni di lavoro da remoto e altri in ufficio, e abbiamo iniziato a costruire un ecosistema che consenta alle nostre persone di ritrovare nell’organizzazione aziendale un sistema di sostegno ad una molteplicità di esigenze non solo professionali, ma anche “di vita”. A cominciare da quella di un maggior coinvolgimento dei collaboratori nella progettazione delle soluzioni che li riguardano, da una responsabilizzazione sugli obiettivi di cui sono depositari e da una maggiore autonomia nella loro realizzazione. Poi abbiamo potenziato la nostra offerta di Welfare, quindi la possibilità di usufruire di quote di remunerazione sotto forma di servizi a condizioni fiscali agevolate. Abbiamo sviluppato una politica e strumenti finalizzati al benessere, finanziario, mentale e fisico: dall’educazione finanziaria allo sportello di ascolto psicologico alle convenzioni con palestre. Stiamo sviluppando programmi specifici per genitori con figli appartenenti a diverse fasce di età, iniziative rivolte all’inclusione della disabilità e alla valorizzazione della componente femminile della nostra organizzazione. Nell’approcciare questi progetti partiamo sempre dai nostri colleghi: li ascoltiamo, li coinvolgiamo nella realizzazione, li promuoviamo come “ambasciatori” di iniziative che hanno contribuito a realizzare.

 

E in questo quadro si inserisce anche La cultura della trasformazione - seminari d’autore, il progetto curato con Feltrinelli Education. Non si è trattato solamente di un percorso formativo ma anche di team building, attraverso il confronto con docenti di eccezione e con le sfide che le trasformazioni in atto ci lanciano. Per immaginare il futuro, potremmo chiosare, è necessario fare squadra. E dunque: la socialità all’interno del luogo di lavoro può essere una risposta alle criticità che abbiamo individuato?


L’evoluzione verso il lavoro ibrido porta con sé un utilizzo diverso del tempo a seconda dello spazio in cui ci si trova. Questo è uno dei presupposti su cui abbiamo costruito il nostro modello: quando si è in ufficio, bisognerebbe dare priorità alla socialità, agli incontri in presenza, alla gestione dei team, mentre si dovrebbe approfittare delle giornate in remoto per le attività che richiedono concentrazione, una forte operatività, l’impegno su progetti individuali. Inutile dire che questa ripartizione è e rimane al momento ideale, abbiamo tutti bisogno di tempo per adeguarci alle nuove modalità: per molti il ritmo delle giornate è ancora scandito dall’agenda di videochiamate in successione continua, una delle peggiori eredità della pandemia!

Con lo stesso approccio “ibrido” abbiamo immaginato il progetto “La cultura della trasformazione - seminari d’autore”: un percorso a tappe per comprendere ciò che accade intorno a noi, le tendenze dell’economia e della società, senza perdere di vista la valorizzazione delle persone e del loro ruolo centrale nei processi di cambiamento. Abbiamo esplorato in compagnia di autori, giornalisti, scienziati e liberi pensatori tre aree di approfondimento (Macro Trend, Flessibilità Cognitiva, Sostenibilità), in seminari e live workshops fruibili on demand su piattaforma digitale. A conclusione del percorso, in presenza, un laboratorio di storytelling per strutturare un racconto in cui mettere a frutto quanto appreso. Il progetto ci ha consentito di mettere a fuoco concretamente alcuni temi chiave. Innanzitutto l’importanza della responsabilità individuale, non a caso il progetto, a numero chiuso, prevedeva partecipazione volontaria. Poi la capacità di comprendere ciò che accade dentro l’organizzazione, guardando fuori: infatti non abbiamo toccato temi assicurativi, ma per i colleghi è stato naturale connettere l’apprendimento alla propria esperienza in azienda. Ma anche la gestione del tempo, con una fruizione dei corsi totalmente flessibile. Il ruolo, infine, delle soft skills nel guidare i cambiamenti, che si è tradotto nella capacità di raccontare delle storie che fossero rappresentative del percorso intrapreso. È stato un successo da tanti punti di vista.        

 

Il progetto era dedicato a tutti i livelli della grande squadra Groupama. In particolare, però, vorremmo chiederti quale può essere il ruolo dellə manager nel leggere e interpretare le trasformazioni in atto nella cultura del lavoro e nel rapporto lavoratorə/azienda, anche nell’ottica di ricucire le profonde ferite che oggi attraversano il tessuto sociale.

 

Prima parlavo di ricette, che non ci sono, di condizioni che devono esserci e di strumenti. C’è anche, fondamentale nella pratica manageriale, un tema di comunicazione: i canali informali, la chiacchiera da una scrivania all’altra o al caffè, nel modello ibrido sono depotenziati, ma ciò comporta che gli altri canali debbano essere più efficienti, per arrivare a tutti i collaboratori a prescindere dalla loro presenza in azienda. I manager devono farsi carico di questa cura, attraverso obiettivi chiari, illustrati non solo nel cosa e nel come ma anche nel perché, aggiornamenti sullo stato di avanzamento, utilizzo di strumenti digitali per veicolare l’informazione. Un bell’impegno per chi gestisce risorse nel nuovo modello operativo e per la leadership delle aziende. Organizzazione del lavoro, pianificazione, lettura del contesto, comunicazione efficace, ascolto, attenzione alle esigenze del singolo e ai “segnali deboli”, sono tutte competenze distintive dei bravi manager di oggi e di domani.


Vorremmo sollecitarti, infine, sulla questione generazionale. Sembra che siano proprio le nuove generazioni, nate e cresciute in tempo di crisi, a vivere maggiormente un certo scollamento, un disamoramento verso il lavoro. O forse, come indicavi, loro in particolare hanno idee chiare su ciò che pretendono, e non sono tanto disposti al compromesso quanto le generazioni precedenti. Ciò può dipendere da una grave consapevolezza della crisi, che produce indisponibilità a fare compromessi al ribasso, anche rispetto ai grandi temi etici e ambientali: lə giovani, insomma, sanno quello che vogliono; e si aspettano che l’azienda non sia solo un ufficio in cui spendere gran parte della giornata, ma un progetto cui appartenere. Come si offre allə giovani un progetto in cui credere davvero? E in che modo le nuove consapevolezze dellə giovani possono essere una risorsa strategica per le aziende?

 

Dicevo prima che le aspettative cambiano non solo e non tanto “in uscita” dall’azienda, ma anche e soprattutto “in entrata”: i nuovi dipendenti, per lo più appartenenti alle nuove generazioni, hanno desideri ambivalenti rispetto al lavoro. Da un lato, sono più disincantati e consapevoli della difficoltà del contesto e non circoscrivono alla sola sfera professionale gli ambiti della propria realizzazione come persone. Dall’altro, forse proprio per questo, cercano un ambiente di lavoro che offra loro stimoli e opportunità: di formazione, di relazione, di crescita in senso ampio. Queste esigenze sono condivise anche da chi in azienda lavora già da tempo: la differenza rispetto al passato è che ci si sente più liberi di esprimerle. Quindi, oltre al filone di lavoro legato al benessere e al nuovo modello ibrido ce n’è un altro, non meno importante, che punta a valorizzare tutte le risorse in termini di competenze, attraverso la mappatura di quelle presenti e da sviluppare, con programmi di formazione di eccellenza e opportunità di crescita professionale che si esprimono non solo nella classica promozione, ma anche attraverso la partecipazione a progetti, anche internazionali, gruppi di lavoro trasversali, l’esposizione a nuove esperienze, anche temporanee. Tutto ciò grazie ai mezzi digitali è più accessibile, non solo economicamente, ma anche in termini di inclusività, perché consente la partecipazione anche a quei soggetti che con i metodi del passato non potevano sempre accedervi perché geograficamente distanti o impossibilitati a muoversi per ragioni familiari.

 

Insomma stiamo vivendo tempi difficili, qualcuno parla di “permacrisi”, la temibile combinazione di una crisi sanitaria dalla quale ancora non siamo del tutto usciti, una guerra, una crisi economica ed energetica: ma anche molto interessanti, per l’accelerazione che abbiamo avuto nell’utilizzo delle tecnologie, che possono essere anche amiche dell’uomo, per una maggiore “rotondità” della percezione della nostra dimensione esistenziale, come persone, per la consapevolezza ormai diffusa della necessità di rivedere la nostra impronta sul pianeta e del ruolo che le aziende possono avere in quanto attori sociali. Questo è il ruolo, coerente con i nostri valori, che abbiamo ritagliato per noi e che continueremo a giocare, con determinazione e ottimismo.   


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