Storytelling e creatività in ambito medico: intervista a Paola Maria Morosini di AstraZeneca
Anche la scienza ha bisogno del racconto, strumento imprescindibile a massimizzare i traguardi della ricerca e a rendere dati e risultati davvero condivisibili da un pubblico più ampio. Ne abbiamo parlato con Paola Maria Morosini, Medical Affairs Head Oncology di AstraZeneca in Italia
La comunicazione scientifica riveste oggi un'importanza crescente, per la necessità di tradurre le scoperte scientifiche in pratiche cliniche efficaci e accessibili in un mondo in cui non solo le informazioni, ma anche i patogeni, corrono sempre più veloci.
In questo contesto, il ruolo dei Medical Affairs nelle aziende farmaceutiche è fondamentale. Si tratta di professionisti che non soltanto devono stare al passo del progresso scientifico, ma devono anche possedere competenze trasversali che permettano loro di comunicare in modo chiaro ed efficace con i medici e gli operatori sanitari.
La formazione di medical advisor e personale medico deve quindi bilanciare le competenze tecniche con quelle relazionali legate all’empatia, alla capacità di ascolto e di comunicazione. La comprensione profonda della metodologia degli studi clinici e delle evidenze scientifiche deve andare di pari passo con la capacità di relazionarsi con i clinici, comprendere le loro esigenze specifiche e adattare il messaggio al contesto in cui operano.
Un approccio innovativo che abbiamo sperimentato negli anni è quello di mettere le competenze dello storytelling al servizio della comunicazione scientifica e del settore medico in generale. Lo storytelling infatti non è solo un mezzo per rendere le informazioni più coinvolgenti, ma anche uno strumento per strutturare i dati in modo che siano più facilmente assimilabili e applicabili, e un modo straordinario di allenare la nostra capacità di ascolto ed entrare in empatia con gli altri. Questo discorso lo abbiamo approfondito anche in una recente uscita della nostra newsletter, Galileo, dedicata allo storytelling in ambito medico.
Per approfondire questi temi abbiamo intervistato Paola Maria Morosini, Medical Affairs Head Oncology di AstraZeneca in Italia. Proprio con AstraZeneca, infatti, come Feltrinelli Education e Scuola Holden stiamo avviando un percorso formativo incentrato sullo storytelling, sulla creatività e sulla leggerezza.
Qual è il suo ruolo all'interno del team e di cosa vi occupate esattamente?
Sono la Responsabile della Direzione Medica di Oncology Medical Affairs, sono cioè responsabile della direzione medica di AstraZeneca in Italia nell'ambito dell'oncologia e dell'ematologia.
AstraZeneca ha diverse divisioni: una più storica, diretta verso la farmaceutica generale, che copre patologie rilevanti e diffuse come quelle cardiovascolari, il diabete, le patologie renali, quelle respiratoriee immunologiche e l’infettivologia. Poi c'è la parte di oncologia e quella delle malattie rare di Alexion. Io sono responsabile per la direzione medica per l'oncologia e l'ematologia, e ho un gruppo piuttosto nutrito di persone che lavorano con me, circa ottanta. Ci occupiamo di tutto ciò che riguarda la parte scientifica, trasferendo i dati dalla ricerca prima e dopo la commercializzazione in attività rilevanti. Traduciamo i dati scientifici in pratica clinica locale, quindi in Italia, per i clinici italiani.
Lavoriamo sia in sede, nei nostri uffici di AstraZeneca, che sul territorio, con persone che vivono nelle diverse regioni d’Italia, e che lavorano a stretto contatto con i clinici di quelle zone. La nostra attività è piuttosto articolata e si svolge su più piani, collaborando con clinici di diverso tipo e in contesti vari, sempre a livello locale.
Un ambito molto tecnico, dunque. Quale tipo di formazione è prevista per i medical advisors in AstraZeneca? Come si bilanciano le competenze tecniche con quelle trasversali e relazionali?
Come giustamente rileva, da un lato c'è la parte tecnica, legata alla ricerca medica e scientifica, ma anche alla dimensione metodologica degli studi clinici, ed è chiaramente fondamentale. Senza questo non si va da nessuna parte e ci richiede di aggiornarci continuamente.
Ma la formazione, se si concentrasse solo su questa parte tecnica, darebbe per scontato che tutti abbiano la stessa percezione delle informazioni, che siamo tutti nella stessa condizione, comprendiamo tutti nello stesso modo e lavoriamo tutti nello stesso contesto con le stesse necessità, cosa che non è reale. Ogni individuo è diverso, vede pazienti diversi in situazioni con priorità che cambiano momento per momento. Il vero quid che fa la differenza è sapere portare e dare nel modo giusto le informazioni corrette che servono in quel momento. Più ci pensiamo, più diventa chiaro che questa è la parte più difficile, perché richiede di uscire dal proprio specifico punto di vista e cercare di mettersi dall'altra parte.
Richiede di comprendere la situazione, davvero, e accettare che ci sono cose che non conosci e che influenzeranno la comunicazione, adeguandosi anche senza sapere esattamente a cosa ci si sta adeguando. La sensibilità, l'attenzione, la capacità di costruire il messaggio andando subito alle cose importanti e lasciando modo di approfondire solo se necessario, è qualcosa che si impara continuamente a seconda di chi hai davanti. Quello che noi cerchiamo di fare è dare gli strumenti peri sintonizzarsi con l'interlocutore, attraverso quelle che vengono chiamate soft skill.
Questa capacità non dipende solo dai contenuti, ma dalla forma in cui si comunica con le persone. È un punto delicato, ma fa la differenza. Se ci concentrassimo solo sul contenuto della comunicazione, sarebbe molto semplice: potremmo utilizzare un sistema di intelligenza artificiale che ci invia comunicati stampa ogni minuto con le informazioni rilevanti. Ma sarebbe un eccesso di informazioni che non arriverebbero in maniera efficace. Sarebbe controproducente.
Il modo, il momento, il tono e il registro sono ciò che fa la differenza nella relazione. Questo è ciò che vorrei aiutare le mie persone ad acquisire sempre di più, perché è ciò che fa la differenza.
Per descrivere lo storytelling Alessandro Baricco dice “sfila via i fatti dalla realtà: quello che resta è lo storytelling”. Soprattutto quando si tratta di salute i fatti però restano ovviamente fondamentali, in che modo la narrazione può migliorare la comunicazione medica senza perdere la bussola della verità, anche quando è una verità scomoda o dolorosa?
La prima cosa che mi viene in mente è che molto spesso lo storytelling suona come un modo per fare un po' di make-up e rendere qualcosa di serio meno serio, più superficiale o artefatto. Sembra una manipolazione. Io non credo sia così.
Credo che lo storytelling sia un approccio importante per fare in modo che i fatti, quelli giusti, siano riportati attraverso un percorso adatto a chi mi sta ascoltando. È la sequenza e il modo in cui presenti quei fatti. È la struttura del discorso, che deve essere adeguata ai fatti stessi, soprattutto nel contesto di una comunicazione scientifica.
Nel nostro contesto, i fatti sono fondamentali. Se li mettiamo in una struttura inadeguata, troppo bassa, troppo alta, troppo larga o troppo stretta, si perde il valore di quello che stiamo dicendo. Lo storytelling è il modo per valorizzare adeguatamente la verità o, più precisamente in ambito sperimentale, l'approssimazione scientifica della verità. Ma attenzione, dobbiamo ricordare che la struttura non è il significato: il significato sta sempre nei dati. I dati devono essere giusti, disegnati bene e veri. Lo storytelling non è dunque un modo per occultare le cose meno interessanti e abbellire altre, ma per presentare la verità nel modo giusto.
I dati devono anche essere disegnati bene. Anche questo è storytelling, ed è un lavoro narrativo che inizia già nel modo in cui si disegna un grafico. Tradurre i dati, come dicevamo prima, non vuol dire né occultare né esagerare, ma scegliere i punti rilevanti per il nostro contesto. Questo rende i dati più utili a chi li ascolta, perché arrivano meglio e più rapidamente. Non è un modo per raccontare quello che vogliono sentire, ma per trasferire le informazioni nel modo più efficace, considerando il contesto e conoscendo chi ho davanti. Richiede un'attenzione maggiore e uno sforzo in più.
Perché avete scelto di collaborare con Scuola Holden? Quali specifiche esigenze formative volevate soddisfare?
Tutto è nato dal desiderio di portare a un contesto estremamente tecnico e scientifico, fatto di super esperti in un'area molto specifica come l'oncologia, uno strumento per guardare oltre il mero dettaglio tecnico. Volevamo andare oltre la conoscenza del dato e dell'aspetto tecnico, cercando di capire quello che realmente arriva dall'altra parte, imparando ad ascoltare.
Abbiamo, insomma, voluto fare un passo laterale, per allargare lo sguardo. Non abbiamo ancora iniziato, ma mi ha colpito l'attenzione che la Scuola Holden ha avuto per il nostro progetto, cercando di capire le sfumature e gli aspetti rilevanti. L'attenzione è stata nel mettersi in ascolto e in sintonia per ragionare insieme e fare un percorso, che è proprio ciò che anche noi vogliamo imparare a fare meglio, attraverso questo percorso. Ascoltare meglio e, quindi, raccontare meglio.
Sono due mondi, quello scientifico e quello narrativo, che difficilmente si incrociano nella vita reale, ma che hanno molto da imparare l'uno dall'altro. C'è stata da parte nostra la volontà di aprirsi e mettersi in sintonia, invece di fare qualcosa di già pensato, standardizzato e organizzato.
Quanto è rilevante la dimensione ludica e la leggerezza, che c’è in un percorso come quello che abbiamo intrapreso insieme, in un lavoro come il vostro? Che impatto ha questo approccio sui pazienti e sul vostro lavoro quotidiano?
Noi lavoriamo in oncologia, un contesto estremamente impegnativo dal punto di vista emotivo. Non stiamo parlando di situazioni leggere, ma di situazioni complesse che richiedono la giusta delicatezza. Parlare di leggerezza in questo contesto può fare un po' paura, dando l'impressione di non essere sufficientemente rispettosi. Questo è il primo dubbio che può sorgere, ma a ben guardare la leggerezza è invece una risorsa preziosa.
Quello che vogliamo fare è apprendere la leggerezza non come superficialità, ma come capacità di vedere e guardare con attenzione e con la giusta disposizione, mantenendo uno sguardo il più ampio possibile. La leggerezza non deve togliere valore o significato, ma aiutarci a essere più aperti, freschi e curiosi, senza mai essere superficiali, e sempre rispettosi.
La leggerezza, infatti, è una qualità necessaria per muoversi all'interno della struttura del racconto, mantenendo l'efficacia della narrazione. Questo è fondamentale per attraversare le fasi del racconto e per mantenere sempre una relazione comunicativa efficace. Non vuol dire cambiare lo sguardo, ma eliminare gli appesantimenti mentali che non servono, senza togliere serietà o attenzione. Aggiunge la capacità di muoversi da una cosa all'altra con maggiore agilità.
Lavorare in un contesto così importante, che riguarda la vita delle persone, ci spinge a mettere in campo tutte le nostre capacità, non solo quelle tecniche, ma anche quelle comunicative e relazionali. È un segno di rispetto verso quello che facciamo e l'obiettivo è farlo nel migliore dei modi. Le persone che lavorano con me dovrebbero sentirsi felici e arricchite da questi momenti, che offrono stimoli al di fuori della routine quotidiana.
Questo arricchimento non è solo per le persone, ma per tutta l'azienda. Persone più competenti e contente vedono il proprio lavoro come un valore reale. Fare cose diverse e stimolanti, anche inattese, è in allineamento con i valori aziendali, che spesso sembrano slogan, ma diventano reali quando vivi in un contesto diverso. Questi momenti di aggregazione, che talvolta possono sembrare team building inutili, sono invece fondamentali per rafforzare lo spirito di squadra e vivere i valori aziendali quotidianamente. Con una ricaduta estremamente positiva su tutto il nostro ecosistema e, dunque, anche sui pazienti.