Raccontare la Storia oggi. Intervista a Francesco Filippi
Parlare e occuparsi di Storia continua a essere fondamentale. Ma come è cambiato il modo di fare divulgazione e di informarsi nell’ecosistema digitale in cui esistiamo?
Il mestiere dello storico non è solo quello di fare ricerca, ma anche – e forse – soprattutto quello di creare valore comune, rendendo accessibile il sapere storico ai diversi tipi di pubblico che di Storia continuano a essere affamati. Ne abbiamo parlato con lo storico Francesco Filippi, docente per il nostro corso “Come fare la Storia: corso online di scrittura e divulgazione storica” in partenza l’8 novembre.
Di cosa è fatta la memoria di un Paese e chi contribuisce a crearla, ma anche poi a prendersene cura e a tramandarla?
Innanzitutto facciamo una distinzione, appoggiandoci agli studi del sociologo Maurice Halbwachs: non c’è un solo tipo di memoria, ma tre. C’è la memoria del singolo, quello che ognuno di noi ricorda; abbiamo la cosiddetta memoria collettiva, ovvero la memoria fatta di accadimenti che gruppi umani ricordano insieme o vogliono insieme ricordare; abbiamo poi un terzo tipo di memoria, che è la memoria pubblica: quella che un Paese, uno Stato, una comunità organizzata decide di darsi partendo da alcuni fatti del passato per venire al presente. La memoria è fatta teoricamente da tutti, praticamente da chi ha il potere e gli strumenti sufficienti e necessari per imporla. C’è qualcuno che a un certo punto, in queste comunità immaginate – come le chiama Benedict Anderson –, decide che tutti debbano ricordare qualcosa: e quindi conseguentemente anche cosa si debba dimenticare. La memoria pubblica è fatta sostanzialmente da qualcuno che, di generazione in generazione, vuole dire a tutti che cos’è il passato. Oggi stiamo vedendo, per esempio nel nostro e in altri Paesi, come stia venendo meno il concetto di memoria pubblica: nel nostro Paese le date più importanti del calendario civile non sono occasione di unità come dovrebbero essere, ma di divisione, come per il 25 aprile o il 2 giugno. Stiamo quindi regredendo da una memoria di carattere pubblico a una memoria di gruppi collettivi che si scontrano perché ognuno possa imporre la propria di memoria. La memoria non è la Storia: la Storia è fissa, la memoria è l’azione di andare a pescare nel passato. La Storia è un enorme supermercato in cui c’è tutto quello che è accaduto, la memoria è l’azione di andare a fare la spesa, spesso per molte ragioni si prende solo un prodotto: quello che serve. Il resto, lo si lascia lì.
In che misura la comprensione del passato e di ciò che siamo stati ci aiuta a vivere nel presente?
Dipende. Dipende da quanto noi abbiamo bisogno, vogliamo, o inconsciamente proiettiamo noi stessi nel passato. Eric Hobsbawm diceva una cosa dal mio punto di vista fulminane: gli storici sono per le nazioni come i produttori di oppio per gli eroinomani. Sono quelli che danno la materia prima e magari lo fanno in maniera neutra, senza voler ammucchiare responsabilità. Ma la realtà è che alcune strutture sociali che trovano la loro legittimità nel passato hanno una fame tremenda di memoria: le nazioni per esempio in questo caso sono proprio delle fucine di memoria, dei grandi digestori di passato. Ci sono invece altre realtà più veloci, chiamiamole così, come quella che potremmo cominciare a definire comunità virtuale, in cui ci sia meno bisogno di ancorarsi al passato per costruire e produrre conoscenza e identità al giorno d’oggi. In realtà gli esseri umani, come diceva Marc Bloch, sono uomini che vivono nel tempo, e sono quindi plasmati dal tempo che vivono. C’è sempre molta Storia nel presente; anzi quando si parla di presentismo a me viene un po’ da ridere, perché è la fase storica del presentismo quella che stiamo vivendo e quindi anche questo rapporto conflittuale con il passato – o con più passati plurali – è proprio la cifra della sua importanza che ci ritroviamo, ancora oggi, nella società.
Non fare i conti con il passato è qualcosa che spesso, nella storia di un Paese e nella conversazione che avviene all’interno della società tutta, si tramuta in un rimosso collettivo, in censura o tabù. È davvero possibile dimenticare senza conseguenze o piuttosto la rimozione di un evento traumatico crea delle crepe all’interno della società?
Ha molto a che fare ancora con quello che definirei in modo un po’ brutale il “mercato della memoria”. Ci sono momenti nella storia degli esseri umani in cui il passato è fondante e fondamentale, appunto nel caso degli stati nazionali; ci sono dei momenti in cui il passato viene utilizzato come una clava e quindi, ad esempio, a una memoria consolidata qualcuno vuole contrapporre altri fatti del passato da raccontare: spesso questi scontri danno vita a dei cambiamenti nella percezione della memoria. Citando il caso italiano, basta pensare a che cosa è avvenuto dopo gli anni Novanta del ‘900 con la fine della Prima Repubblica, che tra le altre cose era la Repubblica dei partiti che avevano fatto la Resistenza. Quello che qualcuno aveva definito, anche in maniera un po’ ambivalente, il “mito resistenziale” si era sostituito un ventennio abbondante in cui, a partire dagli storici ma poi soprattutto i politici e anche vari strati della società civile del Paese, era stato messo in discussione il mito della Resistenza e con esso i valori resistenziali, contrapponendo memorie ed esperienze altre che qualcuno definiva “cancellate, rimosse”, ma che in realtà erano semplicemente fuori dallo sguardo. Mi vengono in mente i libri di Giampaolo Pansa – che come sappiamo hanno costituito una stagione all’interno del racconto pubblico di questo Paese – che citavano dei fatti che per la totalità erano conosciuti alle storiche e agli storici riguardanti la Resistenza ma che, essendo in qualche modo stati posti in una zona non centrale del dibattito, nel momento in cui sono stati messi sotto la luce dell’attenzione hanno preso tutto il palco e sono finiti per sembrare una sorta di unico racconto possibile di quel passato.
I fatti non sono cambiati, è cambiata la percezione, è cambiato il mercato e la valutazione che i singoli fatti memoriali avevano all’interno di questa grande borsa del passato in cui viviamo, che è espansiva o retroattiva. Quando mi chiedi se questi cambiamenti fanno dei danni, io sottolineo che questi cambiamenti portano dei mutamenti, dei cambiamenti nelle generazioni. Il tema riguardante il “fare i conti” mi fa sempre molto riflettere, perché sembra di essere in un ristorante con un gruppo di amici in cui proviamo a capire chi deve cosa e a chi – ma in realtà non finisce mai questo grande pranzo, questa grande cena tra amici nei confronti della Storia. Ogni generazione è costretta a rifare i conti con il proprio passato perché, come diceva Benedetto Croce, “ogni buona storia è Storia contemporanea”: ogni punto di osservazione attuale cambia la prospettiva rispetto al passato. Questa può essere una lettura in qualche modo perturbante per chi cerca di aggrapparsi al passato; invece per quelli che fanno il mio lavoro, cioè per gli storici e le storiche, è una gran bella cosa, perché ci sarà sempre da fare per quelli come noi.
I social sono diventati indispensabili per la divulgazione, compresa quella storica. Ma le logiche che li governano – visualizzazioni, likes, bot, shadow ban e algoritmi – contribuiscono a rendere l’ecosistema digitale difficile da attraversare, dove notizie le cui fonti sono autorevoli e accertate devono convivere con bufale e fake news. Come si può fare informazione e come ci si può informare in modo consapevole in questo contesto?
Mi piace molto la definizione di “ecosistema”, anche perché dà dei punti di riferimento. La Storia è arrivata finalmente nell’era digitale, nell’onlife, come ormai da un po’ di tempo viene chiamato questo modo di stare, di vivere e di interfacciarsi. Il che significa che la Storia come materia strumentale di lettura del mondo è entrata in un nuovo pianeta che ha una fisica diversa, una gravità diversa, una percentuale di vivibilità diversa rispetto a quella del mondo su cui finora la Storia è stata e conosciamo, cioè quella dei libri, della divulgazione scientifica e dei media analogici. Siamo di fronte a un nuovo luogo tutto da esplorare e da conoscere, con il quale la quasi totalità di noi non ha confidenza perché banalmente la maggior parte delle regole di questo nuovo mondo non è ancora stata scritta. Una delle più grandi invenzioni della Storia dell’umanità, la scrittura, ha cambiato semplicemente di velocità passando dagli amanuensi alla stampa e gli esseri umani ci hanno messo cinque secoli per familiarizzare con questo semplice cambio tecnologico.
Invece il web per tutti è una realtà solo dall’epoca degli smartphone, quindi parliamo di una decina o quindicina di anni: siamo ancora all’inizio di questa enorme rivoluzione e si vede. Si vede perché, per esempio, si stanno commettendo molti errori all’interno di questo mondo, si stanno commettendo da un punto di vista storico molti sprechi. Si stanno affrontando in maniera banalizzata e semplificante dei temi e delle questioni che in realtà potrebbero essere affrontate in maniera diversa. Ci sono esempi molto belli, molto utili, penso ai mille modi in cui la Storia ha colonizzato i social più di tendenza, come a Instagram con le migliaia di pagine che si occupano delle immagini del passato e della costruzione delle immagini del passato. Penso al fenomeno dei meme storici, un nuovo modo di scambio di informazioni che non sono dei metodi diretti di apprendimento ma che sono dei metodi per rimarcare la conoscenza storica che ognuno di noi ha: ti fa ridere un meme se lo capisci, e quindi devi saperla quella storia. Ti fa ridere un meme su Costantinopoli se, come me, anche tu ricordi ogni triste giorno a partire da quel 1453. Sono metodi nuovi che si stanno cominciando a studiare, che una buona parte degli storici e delle storiche di oggi non stanno ancora sfruttando appieno purtroppo. Sicuramente è faticoso e difficile, ma è una parte del futuro anche del lavoro delle storiche e degli storici.
Si può scegliere di star fuori dal mondo della virtualità, da questo ecosistema, ma è una scelta che porta danni solo a chi sceglie di non avere il coraggio di sbarcare su questo nuovo pianeta. Le opportunità sono tante, gli errori sono tanti, le possibilità di traduzione di alcuni tipi di linguaggio sono sotto gli occhi di tutti. Penso ad alcuni fenomeni come gli storici star, su tutti Yuval Harari che ha costruito un nuovo modo di raccontare la storia attraverso il suo canale YouTube, o altri anche nostrani famosi al pubblico come Alessandro Barbero che, diciamolo, da una decina d’anni praticamente da solo tiene in piedi la fama e le fortune della divulgazione storica in Italia. Sicuramente abbiamo bisogno di nuovi approcci, nuove metodologie. Non sono particolarmente negativo, mi spaventa solo un po’ l’arrendevolezza con cui qualcuno tratta questo nuovo mezzo e purtroppo è una scusa – chiamiamola così – che vedo abbastanza spesso utilizzata in ambito accademico. E questo potrebbe essere rischioso, perché la Storia non necessariamente deve sopravvivere in questo nuovo mondo: dovremmo fare di tutto, dal mio punto di vista, per farla sopravvivere, ma non è detto che questo mondo abbia sempre necessità di storiche e di storici che spieghino il passato. Non è sempre stato così e potrebbe tornare a non essere così.
Pensi ci sia, fra gli storici e gli accademici, chi considera la Storia come un sapere elitario e che dunque non faccia lo sforzo di “tradurla” per renderla accessibile a tutti? Esiste un linguaggio e un modo “giusto” per fare divulgazione?
In maniera un po’ provocatoria ribalterei la questione: come in tutte le cose ci sono diversi tipi di pubblico per questo tipo di approccio e di “prodotto” che è la Storia. Diversi tipi di pubblico che spesso si intersecano gli uni con gli altri, perché ci sono anche vari tipi, tempi e modi di fruire la Storia – e dal mio punto di vista non ne va abbandonato nemmeno uno. C’è la necessità di catturare un pubblico che ha meno tempo, anche meno voglia o anche meno interesse di avere a che fare con il proprio passato, banalmente perché il passato di fatto è un po’ come la politica: anche se non ti occupi di lui, ad un certo punto sarà il passato a occuparsi di te, e questo è un tema e un problema, quindi c’è necessità di continuare a parlare al grande pubblico. E capisco che alcuni esponenti della storiografia accademica dopo aver passato una vita a imparare un linguaggio che è quello dell’accademia abbiano delle difficoltà o addirittura delle paure a prendere questa conoscenza e cercare di tradurla in nuovi modi e nuovi strumenti. Io posso comprendere questa perplessità nei confronti del moderno e del nuovo. Contemporaneamente capisco che uno che di lavoro si occupa di scienze umane deve essere conscio che non produciamo beni immobili, non facciamo né mattoni né case: la mia singola utilità è quella dell’essere per creare valore comune e la Storia riesce a creare valore comune solo se riesce a interfacciarsi con il pubblico. Quindi sì, c’è il rischio di una chiusura nella torre d’avorio da parte di qualcuno che non comprende la necessità di questi nuovi linguaggi; tuttavia ritengo che ci sarà sempre più necessità di confrontarsi con questo tipo di pubblici e ritengo anche che, specialmente a livello academico, alcune università fuori dall’Italia finalmente stiano comprendendo che fare lo storico significa anche – e alle volte soprattutto – essere in grado non solo di fare ricerca ma di rendere questa fruibile alla maggior parte di persone possibili.
Sono abbastanza fiducioso sul fatto che la Storia, nonostante tutto, troverà la forza e i mezzi per traghettarsi verso il futuro – anche se sembra un piccolo paradosso linguistico – perché c’è necessità, perché c’è un’ampia fame di Storia e i social lo dimostrano, c’è tanta gente a cui il passato continua a interessare nonostante tutto, compresa la difficoltà di accedere a questo tipo di strumenti. C’è l’interesse da parte di chi oggi sta costruendo nuove linee valoriali, penso al post-nazionalismo, penso ai grandi movimenti sociali che oggi si occupano di tematiche enormi che hanno radici nel passato, su tutti il cambiamento climatico che non è comprensibile senza ritornare a quello che si diceva prima, ovvero senza la comprensione del fatto che siamo esseri umani, uomini e donne nel tempo, e quindi nel tempo dobbiamo vivere. Ma sarà la natura delle cose, dal mio punto di vista, a risistemare e anche a risemantizzare il nostro rapporto con la Storia. Abbiamo appena concluso un lungo secolo, un lungo ‘900, in cui le memorie al plurale in qualche modo sono state trionfanti rispetto alla Storia in senso classico. C’è un bel libro di Marcello Flores, Cattiva memoria, che ha affrontato il tema non molto tempo fa: siamo di fronte oggi a una nuova necessità di comprendere il rapporto tra passato e presente, quindi senza avere paura delle memorie e avere la capacità di comprendere che cosa effettivamente significhi prendere pezzetti di passato e utilizzarli per impastare il presente e costruire il futuro.