Progettare la cultura: intervista a Marina Mussapi
Come nasce un progetto sostenibile? Quanto è centrale un business plan? Lo abbiamo chiesto all'esperta di progettazione e consulenza strategica per il settore culturale Marina Mussapi.
Come dare vita a un progetto culturale che sia sostenibile in ogni sua parte? Quali competenze dobbiamo necessariamente mettere in campo? Ci sono degli step imprescindibili? Lo abbiamo chiesto all'esperta Marina Mussapi, che terrà per noi il corso di strategia e business plan per il project management culturale.
Intervista a Marina Mussapi
Nel corso della tua carriera, hai fatto esperienza anche in città come Copenaghen e New York. Che differenze hai notato rispetto all'operato italiano e cosa possiamo imparare?
Le esperienze lavorative che ho avuto all’estero risalgono ormai a una decina di anni fa, quando ero all’inizio del mio percorso professionale, e da allora molte cose sono cambiate sia rispetto alle mie competenze sia rispetto al contesto globale e a tutto ciò che comporta in termini di bisogni e di evoluzioni del settore. Quello che posso dire, essendomi confrontata con realtà internazionali anche negli anni successivi, è che in molti paesi europei il settore culturale opera secondo logiche di finanziamento difficilmente comparabili con il contesto italiano e questo sicuramente cambia le modalità in cui le organizzazioni affrontano la pianificazione e la gestione. In Danimarca ho notato la consapevolezza, da parte della pubblica amministrazione, del valore - anche in termini economici - delle industrie culturali e creative, e ho percepito che ci fosse un buon equilibrio tra la definizione di politiche dall’alto e lo spazio per esperienze nate dal basso. Mi aveva però anche colpito un certo approccio dogmatico da parte di molti operatori e policymaker che avevano abbracciato l’idea di “creative city” in maniera un po’ rigida e acritica, e una generale uniformità di pensiero nel settore che ha in parte portato ad allontanarmi per fare altre esperienze.
Quali sono gli strumenti e le conoscenze indispensabili per chi si vuole occupare di progettazione culturale?
Chi si occupa di progettazione culturale ha il privilegio di poter vedere tutte le fasi di un progetto, dalla sua ideazione alla messa a terra. In questo ciclo le competenze necessarie sono molto diverse tra loro e spesso hanno a che fare con aspetti trasversali di coordinamento e con skill più soft che hard. Gli strumenti adottabili sono relativamente semplici e simili a quelli utilizzati nel project management, mentre quello che realmente conta è saper gestire fasi più lente, di riflessione e sviluppo di un’idea, e poi rapide accelerazioni quando quest’idea si traduce in progetto. In generale penso che sia fondamentale sapere leggere i bisogni e il contesto, per poi mettere a fuoco un concept che sia chiaro ed efficace, ma anche coerente con il quadro più ampio di dove si vuole andare come organizzazione. Operare all’interno del settore culturale implica anche saper stare nel cambiamento e gestire dinamiche spesso molto fluide e non particolarmente codificate, cosa che forse in altri ambiti – come nel mondo corporate – capita meno frequentemente essendo ruoli e processi più rigidi e strutturati.
Ci sono poi aspetti più tecnici come la capacità di costruire un budget solido e di fare una proiezione realistica di quelle che saranno le ricadute in fase di produzione. Infine, in tutti i momenti è necessario gestire dinamiche interne all’organizzazione e/o con i partner del progetto, quindi è importante coltivare competenze relazionali e di mediazione tra portatori di interessi diversi.
Mai come nel settore culturale è importante la pianificazione: come affronterai questo tema nelle tue lezioni?
In ogni settore è importante la pianificazione, perché permette di orientare le proprie azioni a partire da una definizione chiara degli obiettivi per poi predisporre (o cercare) le risorse necessarie per raggiungerli. Questo vale anche per il settore culturale dove le risorse sono scarse, e dove spesso la mancanza di obiettivi di profitto, la forte presenza di lavoro volontario, e la complessità dei fattori in gioco (ad esempio nella gestione delle relazioni con stakeholder e comunità), tendono a tradursi in modalità gestionali artigianali e fragili. In particolare, la mancanza di risorse e l’incertezza nei finanziamenti condiziona la capacità di proiettare la programmazione delle istituzioni culturali su un orizzonte di medio-lungo periodo. Adottare un approccio di pianificazione strategica è fondamentale per garantire sostenibilità del modello economico-gestionale e coerenza nella proposta di valore rispetto alla missione delle organizzazioni culturali. Nel corso cercherò di trasmettere fondamenti teorici e strumenti pratici per mettere a fuoco il business model e impostare un business plan tenendo conto delle specificità di questo settore.
È anche importante tenere a mente che in questo mondo non tutto deve o può essere pianificato e che un certo grado di “incertezza” è funzionale garantire terreno fertile per la sperimentazione.
Lavori nella progettazione culturale da tempo: qual è il progetto a cui sei più legata / di cui sei particolarmente orgogliosa?
Ci sono due progetti a cui sono particolarmente legata: il piano strategico quinquennale sviluppato per La Venaria Reale nel 2015, che ha rappresentato per me il primo importante progetto da consulente, complesso per quantità di lavoro di analisi e per le aspettative da parte della committenza. È stata un’esperienza che mi ha formata dal punto di vista metodologico e che mi ha fornito strumenti che in seguito ho utilizzato in altre esperienze.
L’altro progetto a cui sono legata è Immaginare Genova, realizzato negli anni in cui ho lavorato a BASE, che ho seguito per quasi due anni e con qualche difficoltà anche a causa di interruzioni per la pandemia. A partire dalla domanda “Com’è fatta la città che vorresti?”, abbiamo coinvolto una cinquantina di ragazze e ragazzi provenienti dalle scuole medie e superiori di Certosa e Cornigliano, a Genova, in una serie di laboratori creativi di immaginazione urbana che hanno avuto come output la realizzazione di opere di poster art per un museo diffuso nelle strade della città. Per me questo progetto è stato importante nella misura in cui ci siamo dovuti confrontare con un contesto diverso e sconosciuto e lo abbiamo fatto favorendo la collaborazione tra operatori milanesi e genovesi, cosa affatto scontata.
È un progetto che, pur nella sua piccola scala, attivava diversi livelli e aveva molti elementi di complessità: da una parte è stato messo in campo un percorso formativo dove, oltre al trasferimento di competenze creative, un gruppo di adolescenti ha provato a immaginare un futuro per la propria città, raggiungendo maggiore consapevolezza sul ruolo delle azioni individuali nel raggiungimento di obiettivi di sviluppo locale e globale. Dall’altra, lo sforzo di modellizzare questa esperienza ha portato alla realizzazione di un toolkit che raccoglie buone pratiche, ispirazioni e strumenti per replicare processi di attivismo civico altrove. In particolare la curatela di questa pubblicazione editoriale, che oggi forse avrei anche fatto diversamente, è qualcosa di cui vado molto orgogliosa.