Nuove competenze e professioni per il patrimonio culturale italiano
Una ricerca della Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali delinea un quadro dei profili professionali attivi, facendo emergere le carenze del sistema italiano e le necessità di intervento
In un tempo di grandi cambiamenti, anche i professionisti che lavorano con il patrimonio culturale hanno davanti a sé le nuove sfide della sostenibilità e della transizione digitale. L’esigenza, in questo come negli altri comparti, è quello di puntare sulla validazione delle competenze, migliorando la formazione continua dei lavoratori.
Il Sole 24 Ore riporta la ricerca realizzata dalla Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali dal titolo “Competenze per il patrimonio culturale. Profili e formazione”, che delinea un quadro dei profili professionali attivi nella filiera e dei relativi sistemi di formazione e reclutamento, facendo emergere le carenze del sistema culturale italiano e le prime necessità di intervento. Soprattutto dopo lo shock della pandemia.
Il contesto italiano
La ricerca si è svolta seguendo due filoni tematici: da una parte analizzando l’entrata nel mondo del lavoro per i laureati nel settore dei beni culturali, dall’altra realizzando un’indagine statistica sulle caratteristiche dei profili impiegati in oltre 900 luoghi della cultura (512 musei, 53 aree e parchi archeologici, 133 complessi monumentali, 134 biblioteche e 84 archivi), individuati su tutto il territorio nazionale in ambito pubblico e privato, e dei loro fabbisogni in termini di reclutamento e di formazione del personale esistente.Quello che emerge è un quadro debole sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo: fragilità delle strutture organizzative, precarietà dei contratti dei lavoratori e un ruolo ancora troppo marginale di figure professionali non tradizionali.
Delle circa 20.000 figure previste nelle piante ministeriali, oggi sono presenti soltanto 9.000 dipendenti. Il panorama degli Istituti della cultura italiani si compone per lo più di piccole organizzazioni, che hanno tra uno e dieci dipendenti. Solamente in alcuni casi, tra le biblioteche e i musei, il campione presenta strutture con oltre 50 dipendenti. Il 26,5% dei luoghi della cultura intervistati dichiara di non avere nessuna unità di personale subordinato, mentre il 60,4% asserisce di fare ricorso a collaboratori esterni. Ad aver usufruito della concessione a terzi sono il 48% dei musei, il 34% delle biblioteche, il 10,7% degli archivi, il 47% dei complessi monumentali, il 55% delle aree e parchi archeologici.
Negli istituti afferenti al ministero della Cultura, e in particolare nei musei, si rileva una maggiore presenza di personale con ruolo direttivo in possesso di una laurea o un titolo post-laurea. Viceversa, negli istituti che fanno capo agli enti locali sono presenti in maniera consistente anche ruoli direttivi coperti da profili che detengono il diploma come massimo titolo di studio. Un problema strutturale più che numerico.
Per fare qualche esempio, il registrar è presente solo nel 15% delle realtà intervistate, ma nel 67% dei casi svolge anche altre funzioni. Così come il responsabile dei servizi educativi è presente nel 43% dei casi, ma solo il 7% svolge unicamente questo ruolo. O il responsabile delle pubbliche relazioni, comunicazione, marketing e fundraising è presente nel 38% dei casi, ma che nel 63% dei casi svolge anche altre mansioni.
Come intervenire?
Nel 76% dei musei italiani non esiste un piano strategico per l’innovazione digitale. L’emergenza sanitaria ha spinto però verso un cambio di paradigma della programmazione, delle strategia e delle competenze. E molti poli culturali si sono aperti a tour virtuali e modalità di fruizione digitale. Ora bisogna spingere in questa direzione.
Ma quali figure servono? Economisti della cultura, esperti di diritto – dai contratti e ai copyrihgt digitali – ingeneri delle piattaforme web, digital user experience developer e game designer, digital marketing manager, esperti di audience development e di sicurezza, customer care e data analist saranno utili per costruire nuovi modelli di sostenibilità.
«Considerando che entrate da biglietteria e finanziamenti pubblici potranno essere impattati negativamente dalla crisi, è utile concentrarsi su fonti di ricavo alternative», scrive la professoressa Michela Arnaboldi nell’ultimo report dell’Osservatorio innovazione digitale nei beni e attività culturali del Politecnico di Milano. «Sarà utile soffermarsi su servizi come la vendita di immagini per finalità di ricerca, riproduzione e commerciali (già offerti dal 32% dei musei) e su servizi di abbonamento per l’accesso a servizi tramite web e applicazione. Si stanno studiando forme di abbonamento o di biglietto più ricche che contemplano l’accesso a itinerari e percorsi tematici, in cui l’integrazione online-onsite permetterà di tornare più volte al museo e accedere a contenuti sul web on demand».
Naturalmente, se i contenuti saranno anche in lingua straniera, si aprono maggiori scenari e le distanze non giocheranno più a sfavore, anzi. Nonostante il patrimonio desolante, Alessandra Vittorini, presidente della Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali, si dice fiduciosa del futuro: “NextGenerationEU, lo strumento temporaneo pensato per stimolare la ripresa, insieme al bilancio a lungo termine, costituisce il più ingente pacchetto di misure mai finanziato dall’Unione europea e pone tra i suoi obiettivi strategici proprio quello dell’aggiornamento delle competenze. Anche per quanto attiene alla parte italiana, il Recovery Plan ha tra le sue priorità il tema della riforma della pubblica amministrazione. Dunque se un ammodernamento delle metodologie di reclutamento e di valutazione dei bisogni prima era necessario, credo che oggi sia anche possibile”.