Lo smart working in Italia: la fotografia di Bankitalia
Il numero dei lavoratori in smart working è aumentato a livelli esponenziali durante la pandemia, determinando una rivoluzione sia nel privato che nel pubblico. Ecco i dati, i settori e i trend visti in Italia negli ultimi mesi
Il 2020 è stato l’anno dello smart working. Complice la pandemia di Covid-19, la percentuale di lavoratori che hanno cominciato a svolgere la loro attività da remoto si è impennata a livelli mai visti prima. Un trend che ha coinvolto tutti i principali Paesi del mondo, Italia compresa. Da noi, secondo la fotografia scattata da Bankitalia in un report dedicato al lavoro a distanza, nel secondo trimestre del 2020 lo smart working ha interessato il 14,4% dei lavoratori del settore privato e addirittura il 33,3% dei dipendenti della Pubblica amministrazione.
Lo smart working nel settore privato
Nel secondo trimestre del 2020 sono stati 1,8 milioni i lavoratori del settore privato che hanno svolto la loro attività in smart working. Nello stesso periodo del 2019 erano meno di 200mila. In termini percentuali significa che in un anno il lavoro a distanza ha registrato una crescita del 13%, passando dall’1,4% al 14,4%.
La Banca d’Italia evidenzia come il cambiamento abbia interessato più le donne (16,9%, +15,4% rispetto al 2019) che gli uomini (12,8%,+4,1%), aiutandole a conciliare meglio lavoro e vita familiare. In presenza di figli tra i 6 e i 10 anni, il divario tra uomini e donne è infatti di 5 punti percentuali, se i figli hanno tra gli 11 e i 14 anni la differenza è invece di 3 punti.
A livello settoriale, il comparto che ha più fatto ricorso allo smart working è stato quello dell’informazione e della comunicazione, dove il 58,6% dei dipendenti ha lavorato da remoto, con un rialzo del 52,8% rispetto al 2019. Al secondo posto si piazzano le attività finanziarie e assicurative con il 51,1% (dall’1,9% del 2019). Al contrario, il lavoro da remoto è stato meno utilizzato nel settore degli alberghi e ristoranti, “dove la telelavorabilità è estremamente ridotta” e i livelli sono rimasti simili a quelli registrati nel 2019 (meno dell’1,5 per cento).
Andando avanti con i dati, dal rapporto di Bankitalia emerge che i dipendenti in smart working hanno lavorato più ore (6%) e hanno fatto meno ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni (Cig) rispetto a quelli che non hanno usufruito del lavoro da remoto. Sotto il profilo professionale a lavorare a distanza sono stati più i manager e gli impiegati che gli operai, più i laureati e i diplomati che i lavoratori con licenza media o inferiore.
Passando dai singoli lavoratori alle imprese, le aziende che hanno utilizzato il lavoro da remoto sono aumentate dal 28,7% del 2019 all′82,3% del 2020, con pochissime differenze a livello geografico e uno scarto più ampio a favore delle imprese più dinamiche e innovative. Complessivamente, gli studiosi di via Nazionale giudicano positivamente “gli effetti dello smart working sui lavoratori e sulle imprese”, ritenendo che abbiano preservato “i livelli salariali e l’occupazione di chi poteva svolgerli. Il lavoro agile avrebbe quindi contribuito a limitare le conseguenze negative dello shock connesso con la pandemia sulla domanda aggregata e sull’occupazione”, sottolina Bankitalia.
Lo smart working nella Pubblica amministrazione
Il 33% dei dipendenti della Pubblica amministrazione nel secondo trimestre del 2020 ha fatto ricorso al lavoro da remoto almeno una volta a settimana. Una crescita esponenziale rispetto al 2,4% del 2019, eppure “l’uso dello smart-working è stato limitato da diversi fattori”, evidenzia Bankitalia, parlando di “un limite ‘naturale’ alla telelavorabilità di alcune funzioni del settore pubblico”, ma soprattutto di un limite legato “a ridotte competenze del personale”.
“In media, a fronte di un potenziale di smart working nei servizi pubblici pari a circa il 36 per cento - continua il report - l’utilizzo effettivo nei mesi della pandemia è stato del 33 per cento”. Prendendo in considerazione la PA in senso stretto, il tasso potenziale era pari al 53%, mentre l’utilizzo effettivo ha toccato appena il 30%.
La smart working “fatigue”
Lo smart working avrà anche salvato salari e occupazione, ma secondo un’indagine condotta dai dipartimenti di Psicologia e di Scienze Statistiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha avuto anche effetti negativi sulla salute mentale e fisica dei lavoratori. Lo studio ha tracciato un bilancio dell'esperienza dei docenti universitari italiani dopo nove mesi di lavoro da remoto, concentrandosi sull’impatto che il passaggio dal lavoro in presenza a quello a distanza ha avuto sulla loro vita personale.
La maggioranza degli intervistati (il 55%) ha lamentato un’interferenza tra vita privata e vita lavorativa e una difficoltà a mantenere in equilibrio le due cose. Il 65% dei docenti intervistati ha dichiarato di aver lavorato anche in orari o giornate non lavorative, mentre il 67% ha percepito che la propria vita personale è stata aggredita dalle tecnologie.
Per quanto riguarda l’emersione di sintomi psicosomatici, il 66% ha avuto frequenti tensioni muscolari, il 61% sbalzi d’umore e irritabilità improvvisa, il 55% difficoltà a prendere sonno, il 50% disturbi alla vista e alla voce, il 62% difficoltà di concentrazione.
Tuttavia, nonostante la smart working fatigue si sia fatta sentire, la maggioranza dei partecipanti continua a sentirsi orgogliosa del proprio lavoro (84%) e a considerarlo pieno di significati e di obiettivi (73%).