Leadership di parola, leadership di fatto. Tre domande ad Alessandra Frausin sul public speaking
Oggi, più che mai, non possiamo fare a meno dei discorsi. Data il potere dell'opinione pubblica e della comunicazione di impattare su società ed economia, la presa di parola è una presa di responsabilità: riguarda tutti noi, e in particolare chi ricopre ruoli dirigenziali. Il public speaking, allora, è molto più di una tecnica: è una pratica essenziale per costruire il mondo in cui viviamo.
Economia, politica, opinione, tutto oggi corre sul filo dei discorsi e le parole, nell’infosfera, hanno il potere di spostare rapidamente persone e capitali. Sapersi esprimere con chiarezza e impatto, curando la correttezza dei contenuti e in modo coerente alla piattaforma utilizzata, è oggi una responsabilità di ciascuno, specie di chi ricopre posizioni di potere o visibilità. Segna, inoltre, la differenza tra un leader carismatico e un buon oratore o, in ambito aziendale, tra un leader e un semplice manager.
Per raccogliere le sfide di un presente complesso, il public speaking non può essere inteso come il solo atto di parlare davanti a un pubblico. È una combinazione sottile di storytelling, psicologia, presenza scenica e, soprattutto, autenticità. Il filosofo americano Ralph Waldo Emerson sosteneva che “tutti i grandi oratori furono all’inizio pessimi parlatori”; se ciò è vero è proprio dall’unicità del punto di vista - dell'autenticità e la fragilità di chi si espone - che è necessario partire per sviluppare tutto il proprio potenziale carismatico.
Ne abbiamo parlato con Alessandra Frausin, Executive Coach e docente di Impact Communication di rilievo internazionale, che con Feltrinelli Education collabora alla realizzazione di percorsi di formazione in public speaking per le aziende.
Secondo la sua esperienza professionale, quali sono le sfide più comuni che manager e dirigenti devono affrontare quando si tratta di comunicare efficacemente con i loro team, i clienti o gli stakeholder? Come consiglia di superare queste sfide?
Ogni caso è diverso. Nella mia esperienza, molti manager eccellono nel comunicare un messaggio con chiarezza, tuttavia spesso non danno priorità a un elemento fondamentale: ovvero a come questo messaggio verrà recepito dal proprio interlocutore.
Riporto una frase che mi sento dire spesso, che a mio avviso è utile a marcare la differenza tra un buon comunicatore e un leader: “io l’ho detto in modo chiaro, se il punto non è stato capito la responsabilità è sua”. In realtà non è così, e il vero leader sa che la comunicazione efficace è sempre un processo bilaterale dato dalla nostra capacità di esprimere un messaggio e dalla capacità del nostro interlocutore nel riceverlo. In punto è saper scegliere esattamente quale messaggio desideriamo che arrivi all’interlocutore e prevedere, empaticamente, in che modo lo percepirà.
Per comunicare efficacemente serve dunque sia la conoscenza di se stessi, sia del proprio interlocutore. Bisogna essere capaci di capire che la comunicazione coinvolge una persona che vede il mondo con lenti diverse dalle nostre, che ha valori, punti di vista, obiettivi e vissuti diversi dai nostri. Attraverso la comunicazione, un leader ha l’opportunità di condurre l’interlocutore dalla sua posizione di partenza (ciò che sa, pensa e sente rispetto all’argomento trattato), a un punto finale di sua scelta (ciò che sa, pensa e sente rispetto all’argomento trattato dopo averci ascoltati). Un leader è, letteralmente, colui che conduce.
Se ci perdiamo la seconda componente della comunicazione efficace, ovvero come viene capito e ricevuto il nostro messaggio, abbiamo perso un’occasione.
Cosa accomuna i migliori comunicatori che abbia conosciuto nella mia carriera? Il loro obiettivo nel comunicare. La loro priorità non è quella di emergere o quella di dire tutto quello che avevano in mente su un argomento con chiarezza ed eloquenza, il loro obiettivo è far sì che il proprio interlocutore possa capire, interiorizzare e fare proprio il loro messaggio. Quando mettiamo al primo posto il nostro interlocutore invece che noi stessi, emergiamo come leader.
Nell'era digitale, le presentazioni virtuali sono diventate sempre più comuni, soprattutto in seguito alla pandemia di COVID-19. Secondo la sua esperienza, quali sono le principali differenze tra il public speaking in presenza e quello virtuale? Quali strategie consiglia per ottimizzare l'efficacia della comunicazione in entrambi gli scenari?
Le differenze principali tra public speaking online e dal vivo sono la gestione dell’attenzione: sia la nostra, come speakers, sia quella dei nostri interlocutori.
Partiamo dalla gestione di noi stessi come speakers. Parlare su un palco richiede una gestione delle nostre emozioni molto più complessa rispetto a quella necessaria per parlare in una conferenza online.
Ricordo la mia capa Simona Vandelli, anni fa, che mi diceva: ‘il pubblico si ricorda le sedie dell’evento solo se erano scomode’. È proprio così, quando partecipiamo ad un evento, se tutto fila liscio, quello che ci portiamo a casa è un’emozione. Se siamo fortunati, e qualcosa ci ha colpiti in modo particolare, lo ricordiamo anche anni dopo l’evento. Assorbiamo lo stato d’animo degli speakers, l’energia della musica d’ingresso, giudichiamo la qualità dell’evento sulla base delle persone che hanno seguito l’evento insieme a noi. Se io sono tesa, il pubblico sarà teso. Se io sono appassionata, anche il pubblico lo sarà. Ciò che unisce speaker e pubblico è l’emozione: per questo un lavoro di gestione della propria energia, della propria presenza sul palco e delle proprie emozioni è fondamentale.
Salire su un palco suscita più emozioni per lo speaker che apparire su uno schermo di Zoom. Facilmente potremmo sentirci più a nostro agio dovendo gestire l’emozione del public speaking dal nostro soggiorno o da una sala riunioni da soli con i nostri appunti (spesso a fianco) che su un palco dal vivo. Quando comunichiamo online si presenta quindi una grande sfida: essendo meno tesi, meno emozionati, come facciamo a generare un flusso di energia e passione tali che il nostro pubblico virtuale (che mentre parliamo può farsi un caffè e leggere le mail) rimanga in ascolto?
Un consiglio agli speakers semplice e pratico è quello di posizionare visivamente sullo schermo un collega o una persona fidata che sappiamo terrà la telecamera accesa per tutta la durata del nostro intervento, direttamente sotto la nostra telecamera. In questo modo ai nostri interlocutori sembrerà che stiamo parlando direttamente a loro, e ci permetterà di avere supporto nel mantenere il nostro livello energetico alto.
Infine, un consiglio da tenere presente è che quando parliamo ad un evento online, la comunicazione va tarata sul singolo, non sul gruppo. Noi seguiamo lo speaker dal nostro schermo personale, quindi ascoltare una persona che parla che proietta come se stesse parlando a cento persone rende la comunicazione meno personale e ci fa sentire meno connessi allo speaker.
Arriviamo dunque alla seconda differenza: la gestione dell’attenzione del nostro pubblico.
Nel limite dell’educazione, le persone in presenza non hanno la possibilità di fare il tipico multitasking che ci accompagna ormai in ogni momento della giornata. La loro attenzione è rivolta a noi, allo speaker. Virtualmente non è così, siamo abituati a fare mille cose mentre ascoltiamo qualcuno online. Detto questo nelle conferenze virtuali abbiamo l’opportunità di coinvolgere il nostro pubblico in più modi: tramite domande aperte, sondaggi, la whiteboard su zoom o creando momenti interattivi in aule diverse dove i partecipanti possano conoscersi tra loro e scambiare idee. Dimentichiamoci dunque il modello frontale e alterniamo i nostri interventi a momenti interattivi. Utilizziamo al meglio i mezzi che abbiamo a disposizione.
Ciò che invece accomuna le due situazioni è questo: viviamo in un mondo dove siamo bombardati da messaggi di ogni genere e tipo. Se vogliamo che il nostro interlocutore si porti a casa qualcosa di quello che abbiamo raccontato dobbiamo, come si dice in inglese, “cut through the noise”, ovvero dobbiamo creare uno squarcio attraverso il rumore. Il nostro messaggio deve essere chiaro, deve catturare l’attenzione e scaturire emozioni nel nostro pubblico, deve dire qualcosa o di unico, qualcosa che non sappiano già o qualcosa che idealmente possa proporre una soluzione ad un problema che stanno affrontando.
Non comunichiamo solo per dire qualcosa, pensiamo davvero al cambiamento che vogliamo suscitare al termine del nostro intervento. Se non abbiamo cambiato nulla, da un punto di vista di sapere, da un punto di vista emotivo, o l’opinione del nostro pubblico, era davvero necessario il nostro speech?
Il carisma è spesso considerato un elemento chiave nel public speaking, ma non tutti gli individui si sentono naturalmente carismatici. Quali sono le sue strategie per aiutare a sviluppare un maggiore carisma e presenza sul palco, anche se non si sentono naturalmente inclini in questo senso?
Secondo me quello che chiamiamo carisma deriva dalla nostra capacità di conoscere noi stessi in profondità e dal nostro coraggio nel salire su un palco senza maschera, esponendo qualcosa in cui crediamo davvero.
Non imitiamo i ‘grandi speakers’, impariamo ad esaltare i nostri punti di forza, mettiamo al primo posto il messaggio che portiamo al nostro pubblico invece che noi stessi come performers mentre impariamo ad identificare cosa non ci rappresenta per modificarlo. Il carisma non risiede nell’impeccablità della nostra performance, bensì si manifesta nell'individualità di ciascuno di noi, nella passione che infondiamo attraverso le storie che raccontiamo e nel messaggio che anima la nostra comunicazione. Siamo tutti imperfetti, ci identifichiamo in altri esseri imperfetti ed ammiriamo il loro coraggio. Un qualsiasi approccio al public speaking che si limiti esclusivamente all'aspetto della performance, ricorda un po’ un tutorial di trucco: alla fine della giornata, torniamo a casa per essere esattamente come eravamo all'inizio.
Si tratta dunque di un percorso, e attraverso questo percorso possiamo acquisire la consapevolezza, la sicurezza ed il coraggio che ci permettono di presentarci al pubblico esattamente per quello che siamo. Sapete quanta energia risparmiamo salendo su un palco senza la maschera che abbiamo costruito per proteggerci e che spesso ci porta al risultato opposto?
Lo stimolo è quello di lavorare su noi stessi arrivando a conoscere ciò che siamo così profondamente da poter decidere consapevolmente cosa desideriamo cambiare. Il pubblico è intelligente, è empatico ed è un po’ egoista. Ascolta un discorso per trarne vantaggio personale, non per giudicare lo speaker. Si chiede: “cosa posso guadagnare dall'essere qui oggi e prestare attenzione?” Poiché è concentrato su sé stesso, il pubblico entra in connessione con gli speaker con i quali si identifica. Per questo un grande oratore, un leader, deve partire proprio dal suo pubblico e non da se stesso: deve fare questo movimento verso l’altro, con una forza e un coraggio che chi ascolta magari non ha ancora trovato. In questo coraggio avviene l’identificazione, e una connessione che può essere trasformativa.