Le nuove professioni (e le lauree) delle digital humanities
Le digital humanities offrono nuove prospettive lavorative ai laureati in materie umanistiche a condizione che abbiano seguito un percorso di studi contaminato tra cultura e tecnologia
Da anni sentiamo ripetere in continuazione che le lauree umanistiche sono superate, che non offrono sbocchi, che nutrono la mente, ma non danno agli studenti le competenze necessarie per entrare nel mondo del lavoro. Chi vuole lavorare, guadagnare e fare carriera deve optare per una laurea STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), a prescindere dagli interessi, dalla predisposizione e dalle aspirazioni. E invece nell’ultimo periodo quella che fino a pochi anni fa veniva presentata come una legge scritta sulla pietra, comincia a vacillare, ad essere messa in discussione di fronte alle nuove esigenze del mercato. A rimerscolare le carte sono arrivati il digitale e le digital humanities, che dalla contaminazione dei saperi e dalla multidisciplinarietà traggono la loro ragion d’essere.
Il tanto bistrattato sapere umanistico è dunque diventato “un ottimo strumento per comprendere il funzionamento delle organizzazioni, ancora di più in un ambiente lavorativo dominato dai processi tecnologici che fungono da mediatori”, spiega a The Next Stop Davide Bennato, professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Catania, secondo cui “le Digital Humanities si prestano bene a traghettare i saperi umanistici in contesti ad alta intensità tecnologica (nella fattispecie informatica)”.
Perché ciò avvenga occorre però che le Università facciano la loro parte, diventando luoghi in cui la combinazione di conoscenze diventi il principio base dei percorsi di studi offerti agli studenti. Qualcosa, da qualche anno, comincia a muoversi. Secondo Almalaurea, nell’anno accademico 2018/2019 il 10,2% dei corsi di area umanistica aveva almeno il 5% di crediti di informatica o ingegneria informatica. E la percentuale continua a crescere.
La multidisciplinarietà sperimentata negli ultimi anni ha mostrato effetti positivi anche sull’occupazione e sulla retribuzione. A 5 anni dalla laurea il tasso di occupazione dei laureati biennali umanistici è superiore del 5,9% a quello dei corsi tradizionali (86% contro 81,9%). Non solo, per trovare lavoro impiegano meno tempo - 6,7 mesi contro 8 - e guadagnano di più: 1.382 euro di media contro 1.298.
C’è però un altro aspetto, molto importante, da tenere in considerazione. Fino a pochi anni fa avere una laurea umanistica in tasca significava aver già scelto quale sarebbe stata la propria carriera. Spesso e volentieri l’insegnamento rappresentava l’unico sbocco lavorativo a disposizione degli studenti. Secondo i dati Almalaurea invece, in presenza di un titolo di studio contaminato con esami scientifici, la cattedra non è più la sola opzione disponibile. Anzi, le digital humanities “possono essere strumenti validissimi per tutti gli ambiti in cui è centrale la comprensione dei processi umani di significazione, ovvero delle forme con cui le persone attribuiscono senso al mondo circostante”, spiega il professor Bennato.
Le risorse umane, il marketing, la comunicazione, le relazioni pubbliche e tutte le nuove professioni legate all’intelligenza artificiale e ai big data sono diventate terreno fertile per chi ha fatto studi umanistici e conosce i meccanismi del digitale e dell’informatica.
Un esempio pratico che dimostra quanto appena detto arriva dalla Pennsylvania dove le Penn Libraries hanno lanciato Judaica Digital Humanities, un programma basato su progetti sperimentali e borse di studio digitali. Lo scopo di questa iniziativa, curata da Emily Easten, è quello di promuovere un approccio innovativo che integri ricerche materiali e digitali, open data e discipline umanistiche digitali per esplorare nuovi modelli di pubblicazione e conservazione dei contenuti, facilitare l’accesso e l’uso delle collezioni Judaica di Penn, promuovendole e creando collegamenti tra loro e i contenuti Judaica dispersi in tutto il mondo.