Le grandi scienziate dietro i vaccini anti-Covid
Da Kathrin Jansen a Nita Patel, le storie delle donne che nei laboratori hanno combattuto e combattono la battaglia contro il virus. Tra tenacia, fallimenti e successi
Si potrebbe dire che dietro un vaccino c’è sempre una grande donna. Perché se c’è una cosa che accomuna la battaglia vaccinale contro il Covid-19, di certo è la mano di tante scienziate che per prime hanno combattuto la propria battaglia contro il virus nei laboratori di mezzo mondo.
Kathrin Jansen
Prima tra tutte Kathrin Jansen, 62 anni di cui 36 di carriera come scienziata, alla guida del team di 550 ricercatori che dagli Stati Uniti per primi hanno dato l’annuncio della scoperta del siero Pfizer-BionTech contro il coronavirus. Jansen ha guidato il suo gruppo, lavorando giorno e notte. E lo ha fatto dal suo appartamento di Manhattan, da remoto, tra riunioni su Zoom, figli che piangevano e cani che abbaiavano mentre si decideva il destino del mondo. Solo poche volte – come ha raccontato ai giornali americani – è andata in ufficio nel quartier generale dei vaccini di Pfizer, a Pearl River. “La mia presenza non era necessaria in laboratorio”, ha spiegato.
Alle spalle, Jansen ha anche un altro primato. Nel 1992, alla Merck, guidò lo sviluppo del vaccino contro il virus del papilloma. Molti scienziati avevano abbandonato l’idea. Non lei, che non a caso i suoi colleghi descrivono come un’anticonformista. Dopo litigate e riunioni interminabili per convincere i suoi colleghi, alla fine riuscì nel suo obiettivo. “Se hai un’intuizione scientifica, devi seguire il tuo istinto e non lasciare che gli altri oppositori ti facciano deragliare”, spiegò.
Cresce nella Germania dell’Est, dove si ammala in continuazione. Ma suo padre, ingegnere chimico, ha sempre una pillola a portata di mano. È lì che nasce la sua passione per la medicina. Poco prima della costruzione del muro di Berlino, la sua famiglia lascia la Ddr a bordo di una vecchia auto. A lei, ha ricordato in un’intervista, viene dato un farmaco per sedarla, per non insospettire i soldati alla frontiera. “Non riesco a immaginare quale sarebbe stato il mio futuro se quella decisione non fosse stata presa”, ha raccontato.
Termina gli studi con un dottorato alla Philipps-University di Marburg. E lì impara che nella ricerca il fallimento è frequente e che serve per andare avanti: credeva infatti di aver scoperto un nuovo percorso chimico nei batteri, ma nell’ultimo esperimento tutte le sue congetture crollarono. È la scienza, le disse il suo professore.
Katalin Karikò
Lo sa bene pure Katalin Karikò, che dall’altra parte dell’Atlantico, lavorando per BionTech, ha contribuito e non poco alla scoperta del siero anti-Covid dopo una vita di difficoltà, sfide e fallimenti. Nata in a Kisújszállás, in Ungheria, riesce a ottenere una borsa di studio per mantenersi all’università di Szegen e nel 1985 parte per gli Stati Uniti con il marito, una figlia di due anni e mille dollari nascosti in un peluche, frutto della vendita dell’auto di famiglia al mercato nero.
Ma negli Usa i suoi studi sulle applicazioni dell’Rna nel campo dei vaccini non sono stati apprezzati per lungo tempo. Nel 1995 resta senza lavoro, proprio in coincidenza con una diagnosi di tumore. E solo nel 2013, per un caso fortuito, riesce a portare i suoi brevetti all’azienda tedesca BionTech, di cui oggi è vicedirettrice. “Pensavo di non essere capace, di non essere intelligente. Pensavo di andare da qualche altra parte a fare qualcos’altro”, ha raccontato ricordando quel 1995. Ma oggi il suo nome è stato finanche suggerito per il Premio Nobel.
Sarah Gilbert
È stata già premiata, invece, Sarah Gilbert con un posto nella “Science Power List” del Times di maggio 2020. Irlandese, direttrice del gruppo di Oxford che ha sviluppato il vaccino AstraZeneca, è una professoressa di vaccinologia. Arrivata a Oxford nel 1994 per lavorare sulla malaria, il lavoro di sperimentazione sul vaccino contro il coronavirus si basa proprio su un suo studio del 2011, quando aveva guidato una ricerca per un vaccino antinfluenzale.
La scorsa estate – come ha raccontato – ha convinto i suoi tre figli maschi, tre gemelli studenti di biochimica, a sottoporsi alla sperimentazione del vaccino anti-Covid. E il suo successo si deve anche alla scelta del marito, che da giovane abbandonò la carriera di scienziato per occuparsi dei tre gemelli e consentire a lei di andare avanti. E lei ha proseguito il suo cammino, studiando per decenni con tenacia i vettori virali.
Nita Patel
La stessa tenacia che racconta anche la storia di Nita Patel, 56enne direttrice dello sviluppo del vaccino presso l’americana Novavax, alla guida di un team di sole donne. Nata nel villaggio di Sojitra, nello stato indiano del Gujarat, alle spalle ha un’infanzia di povertà. Il padre si ammala di tubercolosi quando lei ha quattro anni e non riesce più a lavorare. Da lì lei decide che sarebbe diventata medico.
Grazie ai suoi voti eccellenti, riesce a ottenere svariate borse di studio e a frequentare l’università, seguendo poi un master in India e negli Stati Uniti in microbiologia e biotecnologia. Anche lei, più volte, ha dovuto arrendersi ai fallimenti, come quando il suo vaccino contro il virus respiratorio sinciziale viene rifiutato dalla Food and Drug Administration. È la scienza, bellezza, direbbe qualcuno. “Per me niente è impossibile”, dice lei, mentre lavora al vaccino per sconfiggere la pandemia.