L’identità visiva di un giornale: intervista a Stefano Cipolla, art director de L’Espresso
Lavorare sull’ideazione grafica di un magazine significa confrontarsi sì con le immagini, ma anche con i testi che queste affiancano, parlando e pensando sempre a un pubblico di lettori.
Quante volte in edicola siamo rimasti colpiti dalla copertina di un magazine al punto da volerlo sfogliare un po’ e portare poi a casa per leggerlo con più calma? Certo, la copertina non è tutto: dev’essere una promessa mantenuta ed essere coerente con ciò che presenta e di cui parla una volta voltata la prima pagina, ma è un buon biglietto da visita rappresentativo di quell’identità visiva e non un’altra, dietro cui c’è un lavoro di progettazione grafica che aiuta un magazine a posizionarsi e raggiungere i suoi lettori. Dalla curiosità verso la comunicazione visiva legata ai giornali è nata questa intervista a Stefano Cipolla, il cui percorso da graphic designer prima e nel mondo dei magazine poi l’ha portato a diventare art director de L’Espresso nel 2018. Ed è insieme a lui che inizieremo il prossimo corso di grafica editoriale per ideare e progettare un magazine.
Come si costruisce l’identità visiva di un magazine?
La prima cosa è capire il pubblico a cui è diretto. I magazine non sono tutti uguali e quindi anche la progettazione grafica cambia di conseguenza: ci sono i magazine generalisti, quelli settoriali che sono ad esempio dedicati solo al fashion – i cosiddetti “femminili”, contrapposti ai “maschili”… Un tempo c’erano queste due divisioni, adesso fortunatamente è tutto più fluido, anche in editoria –, quelli sportivi, quelli culturali. Prendiamo un esempio concreto: Feltrinelli ha un magazine, Sotto il Vulcano, dedicato alla cultura e alla letteratura: c’è la scelta di un direttore, in questo caso Marino Sinibaldi, che è la persona che detta la linea tenendo conto del tipo di pubblico a cui si rivolge, che può essere diviso per genere, età, nazionalità; successivamente vengono affrontati i contenuti da inserire. Quindi con il pubblico da una parte e i contenuti dall’altra si cerca di fare un match e si inizia a pensare a come rendere da un punto di vista grafico quei contenuti. È chiaro che se il mio pubblico è giovane dovrò usare un tipo di linguaggio grafico molto contemporaneo e potrò anche adottare delle creatività che invece non potrei scegliere per un magazine rivolto a un pubblico più adulto e conservatore. Anche l’aspetto politico è importante, perché c’è un pubblico più conservatore e uno più progressista, il primo più ancorato a un tipo di lettura classica, l’altro invece a una più contemporanea: il grande esempio dei quotidiani è da un lato il Corriere della Sera e dall’altro Repubblica – finché incarnavano distinti ideali più o meno sociopolitici, ora meno evidenti.
Ricapitolando, la prima cosa è l’analisi del target a cui è indirizzato il giornale, poi i contenuti, e solo allora può partire la ricerca di magazine di riviste simili o assimilabili alla tua. La ricerca può essere anche più ampia e internazionale, in cui vai a cercare delle soluzioni grafiche che non hai mai visto adottate in Italia – se si tratta di un giornale italiano – e che ti piacerebbe provare a riportare qua. Oppure è il momento di inventarne di nuove.
Puoi raccontarci il percorso che ti ha portato a diventare art director de L’Espresso?
Il mio percorso a livello di formazione è stato molto classico, perché quando ho studiato io ancora non era ben chiaro cosa fossero la grafica pubblicitaria e quella editoriale. Quindi, per non sbagliare, ho frequentato prima il liceo classico e poi scienze politiche. Parallelamente, ho iniziato a studiare all’Istituto Europeo di Design, che ancora non aveva una qualifica universitaria. Da lì sono uscito come graphic designer e ho iniziato a lavorare nelle agenzie di pubblicità e negli studi grafici.
Dal ’96 al ’99 ho iniziato come freelance a occuparmi dei magazine musicali e di entertainment e ho scoperto che mi piaceva l’idea di creare un prodotto che poi potesse essere anche di servizio, quindi né aziendale né effimero. La grande svolta è arrivata nel 2000: sono entrato in un quotidiano, il Manifesto, che ha una grandissima tradizione grafica. È stato abbastanza impegnativo, perché era il periodo delle Twin Towers e del G8 di Genova e quindi da un punto di vista lavorativo è stato molto intenso, però mi ha fatto sentire l’odore della redazione e mi ha fatto capire che quello era il mio posto nel mondo. Ed era molto importante il fatto che, nel momento in cui si entra in un giornale a fare il grafico, si è equiparato a un giornalista e quindi si può fare il praticantato e poi l’esame per diventare giornalista professionista. Lì ho capito che la grafica editoriale mette insieme immagini e testi – e tu devi saper lavorare con entrambi.
Nel 2004 sono passato a la Repubblica in un periodo molto divertente, perché il direttore era Ezio Mauro durante il governo di Silvio Berlusconi e come giornale di sinistra di opposizione si è seguita tutta quella vicenda. Io sono entrato come designer delle parti più da magazine, come il domenicale, quindi quegli inserti più simili a dei settimanali, in quanto il direttore teorizzava la settimanalizzazione di un quotidiano che fornisca degli approfondimenti curati anche graficamente. Nel 2018 sono stato chiamato dal direttore de L'Espresso per ricoprire il ruolo di art director e quindi fare un tipo di lavoro molto simile per certi versi ma anche diverso per altri, per esempio gli orari e una costruzione molto più lenta: un settimanale ti permette di avere più tempo a disposizione e quindi di poter approfondire la scelta dei collaboratori, decidere se fare un’illustrazione con un illustratore piuttosto che con un altro e così via. Parallelamente ho iniziato a insegnare nella scuola da cui ero uscito, l’Istituto Europeo di Design, e adesso anche per l’accademia RUFA e fare workshop in giro per il mondo.
Nel tuo campo avere una spiccata cultura visiva è imprescindibile, ma la forza delle immagini non risiede solamente nella loro estetica, quanto piuttosto nei significati, storia e cultura che racchiudono. Come si fa dunque a lavorare bene con le immagini per creare la giusta commistione con il testo?
Bisogna appunto non considerarle soltanto belle esteticamente: per quello c’è l’arte. L’arte ci dà delle sensazioni che non sempre sono legate al quotidiano, ma ci possono effettivamente scuotere da un punto di vista emotivo. Invece le immagini dei giornali devono essere al servizio del giornale stesso, dei testi e dei lettori, quindi devono essere decisamente più puntuali. Quando parliamo di immagini in realtà facciamo riferimento a varie tipologie di immagini: ci sono le fotografie, e all’interno di queste ci sono ulteriori sottocategorie perché la fotografia può essere d’autore – come quelle di Henri Cartier-Bresson o di Robert Capa –, di agenzia, che sono quelle che ti arrivano da tutto il mondo e che ti serviranno per documentare un determinato fatto.
Poi ci sono le illustrazioni, che hanno qualcosa di più artistico perché le puoi utilizzare per argomenti più concettuali. Spesso la sezione culturale di un magazine è quella che non ti parla di un fatto ma di un andamento, di un movimento: ad esempio se dobbiamo fare un’apertura sulla dispersione scolastica – un elemento difficile da visualizzare – ricorriamo all’illustrazione, che può essere fatta a mano o in digitale, e a seconda di quello che mi serve e che reputo più giusto per l’articolo chiamerò un illustratore piuttosto che un altro.
Infine possiamo considerare anche le infografiche, che sono quelle immagini che mettono insieme notizie e illustrazioni, molto utili per esempio per raccontare e spiegare qualcosa attraverso degli elementi visivi riconoscibili. Le immagini nei giornali non devono essere solo belle esteticamente ma devono essere funzionali: se poi riuscirò a trovare delle immagini funzionali e anche belle, allora avrò fatto bingo.
Si può giudicare un magazine dalla copertina?
Non so se vado controcorrente, ma io dico che si deve giudicare un magazine dalla copertina: è l’unico elemento di un giornale che il lettore può vedere. Penso a Internazionale, che ha sempre fatto bellissime copertine, spesso ricorrendo alle illustrazioni. E a proposito di copertine e illustrazioni c’è il New Yorker: dentro l’impaginazione è molto classica, ma intanto le copertine ci fanno volare, sono sempre illustrate dai più grandi artisti e illustratori internazionali – anche qualche italiano, come Lorenzo Mattotti o Olimpia Zagnoli. Quindi sì, assolutamente un giornale può essere giudicato dalla copertina.
3 consigli di lettura per approcciarsi al mondo della grafica editoriale.
Sicuramente tutti i libri di Riccardo Falcinelli, che ha scritto dei libri davvero interessanti che hanno avvicinato moltissime persone, anche di non addetti ai lavori, alla comunicazione visiva. Consiglio Critica Portatile al Visual Design, Figure e Cromorama, una trilogia edita da Einaudi.
Un saggio che a me piace moltissimo è Fenomenologia dell’editoria indipendente di Francesco Ciaponi, pubblicato da Edizioni del Frisco, che affronta il tema di estrema attualità dei magazine indipendenti, che a mio avviso sono una branca dell’editoria già di successo destinata ad averne sempre di più.
Infine, Ostinata bellezza scritto da Luca Pitoni e che racconta la storia di Anita Klinz, prima art director italiana, che negli anni ’50 e ’60 nel mondo maschile della grafica è diventata la responsabile dell’ufficio comunicazione della Rinascente e poi da lì è andata a lavorare per Mondadori e per tantissime case editrici, creando delle copertine di libri che sono dei capolavori. Un personaggio meno famoso, perché viene da un’epoca in cui questo tipo di lavoro non veniva quasi considerato.
Fotografia di Ilaria Magliocchetti Lombi.