Il patrimonio culturale italiano ha bisogno di professionisti e nuove competenze
La Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali mostra una fotografia dei profili professionali attivi nella filiera del patrimonio culturale, mettendo in luce le competenze necessarie per consentire all’intero settore di fare il salto di qualità di cui ha bisogno
Il patrimonio culturale italiano ha bisogno di professionisti che lo tutelino e lo valorizzino come merita. Ad oggi però il panorama è costellato da figure professionali precarie e sottopagate, da una forte carenza di personale e dall’assenza di competenze e professionalità in grado di spingere il settore verso quella transizione economica, digitale e di sostenibilità richiesta dal contesto storico e sociale che stiamo vivendo.
Sulle “Competenze per il patrimonio culturale” la Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività culturali ha effettuato una ricerca, il cui fine principale è quello di delineare un quadro dei profili professionali attivi nella filiera e dei sistemi di formazione e reclutamento attualmente utilizzati.
Lo studio parte dal contesto europeo delineato nel “Cultural heritage action to refine training, education and roles (CHARTER)” arrivando fino agli obiettivi dell’Anno Europeo del Patrimonio Culturale 2018, un’iniziativa che ha evidenziato la forte necessità di sviluppare competenze specifiche e migliorare la gestione del patrimonio culturale alla luce della sempre più elevata richiesta di digitalizzazione.
“Se vogliamo tenere il passo con le nuove tecnologie, con la digitalizzazione, con la semplificazione è necessario abbassare l'età media del personale e portare giovani professionalità all'interno della pubblica amministrazione”, ha affermato il ministro della Cultura, Dario Franceschini riferendosi ai luoghi della cultura gestiti dalla Pa. Ma la necessità di puntare su nuove professionalità e sullo sviluppo di competenze innovative e trasversali che consentano all’heritage nostrano di fare il salto di qualità richiesto è applicabile a tutti i settori della filiera.
I risultati della ricerca
La ricerca della Fondazione Scuola Beni e Attività Culturali si fonda sull’analisi dello stato dell’arte di 916 luoghi della cultura tra musei, siti archeologici, archivi e biblioteche. Oltre la metà di questi siti è gestito da enti locali, il 39% da enti pubblici e privati, il 20% dal Ministero dei beni culturali. “Quello che emerge - commenta il Sole 24 Ore - è un quadro debole sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo: fragilità delle strutture organizzative, precarietà dei contratti dei suoi lavoratori e un ruolo ancora troppo marginale di certe figure professionali non tradizionali”.
Facendo un esempio pratico, sulle professioni del patrimonio culturale, le piante ministeriali indicano circa 20mila figure. Ad oggi, in Italia sono presenti solo 9mila dipendenti. Oltre il 60 per cento dei luoghi della cultura si avvale di collaboratori esterni, mentre i lavoratori subordinati sono una netta minoranza. Il personale laureato è in maggioranza negli enti guidati dal MiC, mentre negli istituti che fanno riferimento agli enti locali i diplomati sono in maggioranza.
“Oggi non basta più fare la conta del numero delle persone che mancano – spiega al quotidiano economico Alessandra Vittorini, direttrice della Fondazione – ma, alla luce dei nuovi scenari, è necessario anche definire con chiarezza di quali figure e di quali competenze si ha veramente bisogno, sia per quanto riguarda l'area tecnico/specialistica sia per quella gestionale. Non basta dire che serve assumere, bisogna sapere chi. In questo senso andrebbe anche ripensato il ruolo del concorso pubblico affinché assuma il suo vero compito a servizio dell'amministrazione committente e perché questo avvenga è necessario che le istituzioni esprimano i proprio bisogni”.
Le professioni per il patrimonio culturale
Sono due le priorità che i professionisti del settore culturale devono perseguire: da un lato la tutela dell’immenso patrimonio italiano, dall’altro la sua conservazione e la sua promozione. Per farlo c’è bisogno di nuove competenze tecniche e specializzate, ma anche di skill trasversali su Marketing, Comunicazione, Fundraising in grado di intercettare le sfide della new-economy. Il tutto in nome della multidisciplinarietà, un approccio da perseguire anche in ambito formativo e universitario, che aiuti i lavoratori a sviluppare competenze integrate e ibride che privilegino da un lato le conoscenze storico-artistiche, dall’altro le esigenze di sostenibilità, digitalizzazione e pianificazione economica.
Lo studio della Fondazione Scuola Beni e Attività Culturali individua due figure strategiche su cui si ritiene vadano concentrati gli investimenti:
- l’Online Cultural Community Manager (OCCM): responsabile della strategia di comunicazione del museo e della gestione delle relazioni con i pubblici online;
- il Digital Strategy Manager (DSM), responsabile della strategia digitale del museo, un professionista che svolga il ruolo di “mediatore tecnologico, capace di costruire un dialogo proficuo tra le realtà museali e il mondo tecnologico; si tratta di una figura che conosce bene entrambi i mondi in grado di promuovere l’innovazione tecnologica per traghettare i musei verso una nuova era”, spiega lo studio.
Accanto a queste figure manageriali la ricerca sottolinea il fabbisogno di Digital PR e Social Media Manager che portino avanti la promozione del patrimonio culturale e di figure professionali in grado di favorire la partecipazione come il Mediatore Culturale.
Importante infine, sarà anche impiegare bene i profili già presenti, ma che spesso sono chiamati a svolgere funzioni differenti da quelle che la loro professionalità implicherebbe. “Basti pensare che il registrar è presente solo nel 15% delle realtà intervistate, ma nel 67% dei casi svolge anche altre funzioni, così come il responsabile dei servizi educativi che è presente nel 43% dei casi, ma solo il 7% svolge unicamente questo ruolo o il responsabile delle pubbliche relazioni, comunicazione, marketing e fundraising presente nel 38% dei casi, ma che nel 63% dei casi svolge anche altre mansioni”, evidenzia il Sole 24 Ore.
Le soft skills per il patrimonio culturale
Pensiero analitico, leadership, resilienza, resistenza allo stress, orientamento al servizio e intelligenza emotiva. Sono le sei soft skills ritenute fondamentali e che secondo il World Economic Forum 2020 dovrebbero essere poste al centro dei programmi di riqualificazione delle competenze in Italia. Eppure gli strumenti di formazione e reclutamento sembrano totalmente ignorare le soft skills, considerate quasi superflue e secondarie. “Difficile rintracciare nel settore del patrimonio culturale italiano segnali di attenzione per le competenze comportamentali e trasversali”, spiega lo studio. Un errore da correggere per far fare al patrimonio culturale italiano quel salto di qualità di cui ha bisogno.