Giornalismo e pandemia: i 7 errori da non ripetere
In tutto il mondo giornali e giornalisti stanno cominciando a riflettere sui principali errori compiuti nella copertura della pandemia. Dagli Usa all’Italia emergono “pecche” scientifiche e politiche
C’è un pre e un post Covid-19 nella sanità, c’è un pre e un post Covid-19 nell’economia, ma c’è anche un pre e post Covid-19 nel giornalismo. È passato più di un anno dall’esplosione della pandemia e benché, grazie ai vaccini, la luce in fondo al tunnel cominci a intravedersi, l’unica certezza è che niente - in qualsiasi ambito - sarà più come prima. Ed in ogni parte del mondo il giornalismo ha cominciato a fare una riflessione seria su quale sia stato il suo ruolo in questa emergenza. Bisogna capire cosa è accaduto, quali sono stati gli errori, quali le lezioni che abbiamo imparato e che dobbiamo imparare da un’emergenza che ha sconvolto tutti, che ha cambiato tutto, che ha posto interrogativi forti sullo status quo esistente prima della pandemia.
Ciò che colpisce è che ovunque, dagli Stati Uniti al Regno Unito, passando per l’Italia, si notino dei denominatori comuni, come se tutti avessimo fatto gli stessi sbagli, sottovalutato le stesse cose, in una lunga catena di errori motivata spesso dall’incertezza, a volte dalla mancanza di conoscenze, altre ancora dalla volontà di dare un significato ad un evento che ha colto tutti totalmente impreparati.
La sottovalutazione iniziale
Nelle fasi iniziali della pandemia la stragrande maggioranza dei giornalisti di tutto il mondo, insieme ai politici e ad alcuni scienziati, ha trattato la questione con sufficienza, come se ciò che stava accadendo in Cina riguardasse solo la Cina, un mondo lontano, diverso. I Paesi occidentali erano considerati sicuri, al riparo dal pericolo perché differenti, “migliori” per certi versi. Una retorica paternalistica che ha accomunato tutti i media e che ha spinto la maggior parte dei giornali a relegare le notizie sul quello che veniva chiamato il “virus cinese” nella sezione Esteri, ben distanziate dai fatti importanti. “Noi giornalisti abbiamo dato una copertura sufficiente al Covid-19 a febbraio?” Si è chiesta Dorothy Byrne durante un seminario ospitato dal Reuters Institute. “Richard Horton di The Lancet (una delle più autorevoli riviste scientifiche del mondo ndr.) è certo che non l'abbiamo fatto”, ha spiegato la giornalista di Channel Four. Un altro caporedattore ha detto: “Ad essere sincero, non credo che il Covid-19 sia stato preso sul serio fino alla Lombardia”. L’atteggiamento mediatico che ha accomunato i giornali occidentali nei primi due mesi del 2021 si è brutalmente concluso di fronte alle notizie provenienti da Bergamo e dalla Val Seriana, cuore produttivo d’Europa. Di colpo, il Covid-19 è arrivato in Occidente, travolgendo qualunque cosa, giornalismo incluso.
L'incertezza della scienza
Una volta compreso il reale pericolo che stavamo affrontando, i giornali di tutto il mondo sono stati inondati dalle opinioni di virologi e scienziati. Ed è qui che arriva il secondo errore che molti media continuano a fare: presentare queste opinioni come certezze assolute, come verità inequivocabili, come risposte definitive. L’unico risultato ottenuto è però quello di aver generato ancora più confusione e incertezza.
“Un giornalista specializzato mi ha detto: ‘La scienza non è verità. La scienza riguarda l'incertezza e la riduzione dell'incertezza. La gente si aspettava che la scienza sapesse ciò che non poteva sapere’. Un editore di un altro programma ha confermato questa visione: ‘Stavano cercando di mettere una certezza dove non esisteva’. Un altro ancora ha detto: ‘Non esiste un'unica opinione. Tutti stanno imparando’ qualcosa sul coronavirus, scienziati compresi”, ha raccontato Byrne.
Giornalisti politici vs giornalisti scientifici
Di fronte all’emergenza pandemica, il giornalismo è stato chiamato a veicolare dati, parametri, indici, tassi e via dicendo. “Ma i giornalisti che coprivano le notizie sulla pandemia avevano una conoscenza scientifica sufficiente per interpretare quel messaggio?” si è chiesta Byrne nel corso del suo seminario. La maggior parte dei giornalisti, come la maggior parte dei politici, non ha alle spalle studi scientifici. “Non era solo la mancanza di conoscenza scientifica che ci ostacolava”, hanno raccontato alcuni reporter. “Spesso non capivamo i dati. Gli esperti lamentano che la nostra professione confondeva regolarmente numeratore e denominatore.” Esempio lampante di quanto appena detto sono le conferenze stampa dei governanti e degli esperti, che spesso sono seguite da redattori che poco hanno a che fare con la scienza e che dunque faticano a cogliere le notizie più rilevanti e a porre le domande corrette. Perché non inviare giornalisti scientifici? Le motivazioni sono comuni in tutto il mondo. La prima riguarda l’abitudine: consuetudine vuole che nei palazzi del potere entrino gli esperti di politica e non di scienza. In secondo luogo i giornalisti scientifici sono pochissimi e la formazione giornalistica sul tema è spesso molto carente. Terzo: l’ampia copertura di cui necessita la pandemia si scontra con il budget che molti giornali hanno a disposizione, il che significa che professionisti che solitamente trattano altri argomenti si sono ritrovati ad occuparsi di Covid-19 senza avere la preparazione adeguata.
Vaccini: nessuno spazio per l’ottimismo
“Quando il vaccino antipolio fu dichiarato sicuro ed efficace, la notizia venne accolta con esultanza. Le campane delle chiese suonavano in tutta la Nazione, nelle fabbriche si festeggiava. ‘Polio sconfitta!’ titolarono giornali. ‘Una vittoria storica’, ‘monumentale’, ‘sensazionale’, dichiararono i giornalisti.” Parte da questo ricordo la riflessione della rivista statunitense The Atlantic che si chiede perché l’approvazione dei vaccini contro il Covid-19 non sia stata celebrata con lo stesso clamore. “Al contrario, il ritmo costante delle buone notizie sui vaccini è stato accolto da un coro di implacabile pessimismo”, sottolinea il magazine. Ogni buona notizia relativa ai vaccini, alla loro efficacia, alla velocità con cui procedono le somministrazioni è accompagnata da dibattiti fuorvianti sull'inferiorità di alcuni preparati rispetto ad altri, da lunghi elenchi di cose che le persone vaccinate non potranno comunque fare, dalle preoccupazioni riguardanti la diffusione delle varianti. “Il problema non è che la buona notizia non venga riportata o che non dovremmo essere prudenti” - sottolinea The Atlantic - “È che né le segnalazioni né i messaggi di salute pubblica hanno riflesso la realtà davvero sorprendente di questi vaccini. Non c'è niente di sbagliato nel realismo e nella cautela, ma una comunicazione efficace richiede un senso delle proporzioni. Dobbiamo essere in grado di celebrare notizie profondamente positive. Tuttavia, invece di un ottimismo equilibrato sul lancio dei vaccini, al pubblico sono stati offerti solo dubbi e incertezze”. Un trattamento giornalistico che ha contribuito, tra le altre cose, ad amplificare le istanze dei no vax.
Paternalismo, regole e vergogna
Un altro errore individuato da The Atlantic riguarda il paternalismo che giornali ed esperti di sanità hanno dimostrato nei confronti del pubblico perché, secondo l'opinione dominante, se le persone si fossero sentite troppo sicure si sarebbero comportate in modo sconsiderato. I messaggi si sono dunque concentrati sulla necessità di offrire al pubblico delle regole chiare, lasciando in secondo piano la spiegazione dei meccanismi di trasmissione che avrebbe potuto aiutare le persone a capire come comportarsi nei diversi contesti. “Durante lo scorso anno, i media tradizionali e i social media sono stati coinvolti in un ciclo di vergogna, aggravato dall'essere così poco scientifici e fuorviati”.
Rimproveri, accuse, sdegno nei confronti di una passeggiata nel parco o in spiaggia hanno riempito le nostre giornate. “La vergogna - sottolinea la rivista - è spesso un modo inefficace per convincere le persone a cambiare il loro comportamento, rafforza la polarizzazione e scoraggia la divulgazione, rendendo più difficile combattere il virus. Dovremmo al contrario enfatizzare i comportamenti più sicuri e sottolineare quante persone stanno facendo la loro parte, incoraggiando gli altri a fare lo stesso”.
Il giornalismo della bozza
Se in campo scientifico il giornalismo ha mostrato delle pecche, neanche la copertura politica della pandemia è stata esente da errori. “Il nuovo formato giornalistico di maggior successo quest’anno nell’informazione italiana è stata la bozza: intesa nel senso di anticipazione o ipotesi sulle decisioni delle istituzioni nei confronti del coronavirus, anticipazione o ipotesi in quotidiano aggiornamento e correzione fino a raggiungere un picco di concitazione all’immediata vigilia della pubblicazione delle decisioni ufficiali, e ricominciare il ciclo pochi giorni dopo”, si legge su Charlie, la newsletter del Post dedicata all’informazione. Un trattamento che non ha generato solo confusione, ma che in alcuni casi ha avuto conseguenze anche sulla diffusione dei contagi. L’esodo verso il Sud che ha preceduto il primo lockdown di marzo 2020 è solo l’esempio più eclatante.
Il giornalismo del retroscena è ormai diventato la regola e spesso è stato sfruttato dai governanti per sondare la reazione dell’opinione pubblica a un possibile provvedimento, correggendolo in corso d’opera nel caso in cui le polemiche fossero eccessive.
Rischio propaganda
“In questi mesi c’è stata un’ulteriore sterzata verso una sempre più decisa disintermediazione del rapporto tra politica e cittadinanza, che ha permesso alla comunicazione politica di conquistare molto terreno, togliendone altrettanto all’informazione”, sottolineaInternazionale. Un percorso cominciato prima della pandemia che durante l’emergenza ha raggiunto la sua acme. Conferenze stampa continue, dirette, comunicazioni rivolte direttamente ai cittadini senza l’intermediazione dei giornali.
Il rischio, concreto, è quello di perdere per strada la critica, l’interpretazione, il filtro che i media dovrebbero costruire. Il tutto a favore di una propaganda sempre più forte e massiva che potrebbe travolgere ogni messaggio.
Le lezioni da imparare
“Quindi cosa possiamo imparare su come dovremmo condurre il nostro giornalismo in futuro? Certo, abbiamo bisogno di più laureati in scienze in giornalismo. L'industria televisiva deve collaborare con le università in modi fantasiosi per incoraggiare i migliori laureati in scienze a entrare nel nostro mondo. Ma tutti dovrebbero forse fare una mezza giornata di formazione su alcuni concetti di base sulla scienza”, commenta Byrne. Bisogna capire che non sempre, soprattutto quando si parla di scienza o di dati, c’è una risposta giusta o definitiva e che spesso tutti siamo chiamati a imparare qualcosa insieme, giornalisti e virologi compresi. “COVID-19 ha significato che politici, scienziati, altri esperti e giornalisti, ciascuno a modo proprio, hanno dovuto intraprendere un enorme viaggio di apprendimento e tutti noi abbiamo inevitabilmente commesso degli errori”.