Fare podcast di lavoro: intervista a Jonathan Zenti
«Il podcast ideale è fatto di un po' di innovazione, un po' di spinta rivoluzionaria, un po' di divertimento e un po' di senso di avventura, anche».
Ha lavorato per RadioRAI, BBC, ABC Australia, CBC, Chora Media e ha ideato e realizzato podcast anche per Netflix, Save the Children, Giorgio Armani. Scrive e produce il suo podcast indipendente Problemi, scrive di podcast su Internazionale ed è Head of Content di Spreaker. Jonathan Zenti si concentra sulla direzione creativa, dalla scrittura alla sonorizzazione, per creare contenuti dalla forte identità in grado di farsi notare dal pubblico e di costruire una forte relazione con gli ascoltatori: gli abbiamo fatto tre domande in preparazione al suo corso “Come fare un podcast”.
Intervista a Jonathan Zenti
Spazi da radiodrammi a “fiction-mentari”, da adattamenti di libri alla produzione di audio documentari, lavori per te stesso e per gli altri: cosa fa Jonathan Zenti, detto da Jonathan Zenti?
Allora, è molto difficile per me dire cosa faccio, anche nelle mie biografie cambio definizione ogni due anni. Però, durante la pandemia, ho trovato una registrazione di molti anni fa – del 2012 o 2013 – di una lezione universitaria in cui si parlava di me a cui io non ero presente. Una persona, parlando di una cosa che avevano sentito nella lezione precedente, chiese che lavoro facessi. Il docente che mi aveva invitato mi definì “un creatore di occasioni”. Se lo dicessi io sarebbe pretenzioso, però non avevo mai pensato al lavoro che faccio come qualcosa del genere, come qualcuno che si diverte a mettere insieme delle combinazioni strane, imprevedibili e impreviste da cui possa nascere l’occasione di fare qualcosa che altrimenti non sarebbe possibile.
E l’audio, forse, mi è sempre piaciuto perché è un mezzo che ha un passaggio molto veloce fra un’idea e il prodotto finale, c’è poco “intasamento” produttivo. Per questa ragione è lo strumento adatto per creare occasioni come i “fiction-mentari”, gli adattamenti di libri, la produzione di audio documentari ma anche la produzione di fiction, di brevi interviste o di piccoli giochi come quelli che faccio con i Patreon audio. Queste sono, per me, occasioni per provare a fare delle cose che altrimenti non esisterebbero.
Vinci premi internazionali a destra e a manca, nel 2016 ti sei piazzato secondo al primo talent per podcast degli Stati Uniti, un tuo progetto è stato definito “il miglior podcast italiano” da Esquire e un altro, in inglese, “il terzo miglior podcast del 2018” per il Guardian. Sei la persona giusta a cui chiedere: in cosa sono diversi i podcast italiani da quelli in inglese? E in cosa sono diversi questi due pubblici?
Dipende molto da dove sono fatti e dalla cultura generale: parliamo in particolare di quelli statunitensi. C’è sicuramente un dato molto empirico, ovvero il maggior investimento sulle professionalità che lavorano dietro le quinte. Ad esempio, per me la grande differenza quando lavoro a progetti e podcast statunitensi è che, ad esempio, l’editor è un ruolo importantissimo tanto quanto l’autore. Quando ho lavorato al mio podcast in inglese con degli editor molto molto bravi, per me da autore è stata una cosa nuovissima e dolorosa. Alla fine però il risultato era innegabilmente migliore.
La grande differenza è che il pubblico statunitense è molto vario e quindi anche con un progetto molto strano si può arrivare ad avere un pubblico grande abbastanza per poter creare una piccola economia. Il pubblico statunitense, che non paga le tasse per la cultura e per l’arte, è abituato a pagarsi anche l’arte, la cultura e l’intrattenimento con tutti i suoi pro e i suoi contro. Negli Stati Uniti l’industria dei podcast, che adesso c’è, nasce comunque da un movimento culturale un po’ rivoluzionario che andava sotto il nome di “Radio Revolution” che inizia nel 2007- 2008 e si chiude con l’uscita di Serial che ha effettivamente rivoluzionato anche il modo di fare contenuti e di fare audio. Da noi [questo movimento] non c’è stato. Noi siamo passati dal nulla dei programmi radiofonici all’industria dei podcast e questo un po’ si sente.
Di cosa è fatto il podcast ideale?
Dipende per chi, quando io penso a un podcast ideale lo penso per me. Io ad esempio non penso sia imprescindibile avere un sound design o un suono formidabile, sono tutte cose che aiutano, che costruiscono l’identità, il senso e sulla quale anche io stesso lavoro molto, tuttavia, vado sempre a cercare delle cose che siano originali e in cui si senta che chi l’ha fatto si è divertito mentre lo faceva. Mi piacerebbe appunto che le persone che parteciperanno al corso lavorassero su qualcosa di cui sono contenti e che saranno soddisfatti di aver fatto, qualcosa che sarà la loro piccola statuetta di cui essere fieri.