Ecco perché la Data Economy farà crescere l'Italia post Covid
La Data Economy rappresenta un’enorme opportunità di crescita e sviluppo, ma l’Italia e l’Europa sono ancora molto indietro sul digitale. Dal modo in cui utilizzeremo e sfrutteremo i dati dipenderà il futuro del Paese
L’economia italiana galoppa sulla strada della ripresa, le percentuali di crescita sono elevate e la fiducia sul nostro sistema Paese sembra finalmente essere tornata. Non basta però e non può bastare. Lo ha chiarito senza appelli lo stesso Presidente del Consiglio, Mario Draghi: “La vera sfida sarà riuscire a mantenere un tasso di crescita considerevolmente più elevato di quanto fosse prima della pandemia, è lì che si vedrà la capacità dell’economia italiana di diventare strutturalmente più solida”, ha detto il Premier. Dall’attuale fiammata si dovrà dunque passare a una crescita economica strutturale, dicendo addio agli “zero virgola” che per decenni hanno descritto l’andamento dell’Italia. Per farlo c’è una sola strada da percorrere: quella, impervia per molti Paesi europei, della Data Economy.
Cos’è la Data Economy?
Si tratta di un insieme di attività fondate su un solo, grande, paradigma: l’utilizzo dei dati che vengono valorizzati attraverso processi di generazione, raccolta, elaborazione, analisi e automazione, ma anche sfruttati per lo sviluppo di tecnologie importantissime per il nostro futuro. Tre esempi su tutti: l’Internet of Things, il Cloud e gli algoritmi di analisi dei dati.
“Lo sviluppo della Data Economy oggi ha un valore non solo economico ma anche di sicurezza e, in quanto tale, l’Unione Europea e i suoi Stati membri non possono permettersi di rimanere indietro rispetto ai principali competitor, primi tra tutti USA e Cina” dichiara Valerio De Molli, Managing Partner & Ceo di The European House – Ambrosetti.
A inizio settembre è stato presentatolo studio “La Data Economy in Italia e il ruolo del Cloud per la transizione digitale”, realizzato da The European House – Ambrosetti su incarico di Tim. Al suo interno sono contenuti dati e previsioni che ben lasciano intendere quanto lo sviluppo della Data Economy sarà importante per la crescita del nostro Paese e dell’intera Europa.
I ritardi dell’Europa
Lo studio parte da un assunto: “la risorsa principale su cui si basa la Data Economy, ovvero il dato, è potenzialmente infinita e la quantità generata dai cosiddetti ‘dispositivi intelligenti’ è in costante aumento”. Le opportunità sono dunque enormi, ma l’Unione Europa stenta a coglierle. Rispetto a Stati Uniti e Cina, infatti, l’Ue è fortemente in ritardo sui dati. A dimostrarlo ci sono i numeri: l’Europa è la seconda regione al mondo (dopo l’Asia) per numero di utilizzatori di Internet, pari a 728 milioni. Nonostante ciò nella Top-15 delle aziende tech per capitalizzazione c’è una sola società europea e il contribuito del vecchio continente all’economia delle piattaforme è pari al 4% a livello globale, a fronte del 21% dell’Asia e del 74% degli Stati Uniti.
“L’eccessiva dipendenza da fornitori tecnologici e da piattaforme gestite da provider non-europei può determinare una perdita di potenziale d’investimento e di sviluppo da parte dell’industria digitale europea. Anche per questi motivi, la Commissione Europea ha pubblicato nel 2020 la propria Data Strategy, incardinata sui paradigmi della sovranità dei dati, dell’apertura e dell’interoperabilità”, sottolinea lo studio.
L’Italia sta ancora peggio
Se l’Unione Europea piange, l’Italia non ride, anzi. La fotografia scattata al nostro Paese mostra notevoli criticità sulla digitalizzazione. Ed è per questo motivo che ci ritroviamo 25esimo posto su 28 Paesi europei nell’edizione 2020 del DESI (Digital Economy and Society Index).
Lo studio presentato nel corso del The European House – Ambrosetti di quest’anno fa emergere inoltre alcune caratteristiche specifiche del nostro Paese. Il problema più importante? I lavoratori non possiedono competenze digitali adeguate, una realtà che secondo il 51,5% delle imprese rappresenta il primo ostacolo allo sfruttamento dei dati. Abbiamo inoltre una scarsa propensione allo scambio dati (oltre il 50% delle aziende scambia dati con la propria supply chain, ma solo 1 su 3 con la PA.) e non possediamo standard comuni. “Per 2 piccole imprese su 3 (il 66,7% delle imprese con ricavi tra i 30 e i 50 milioni di euro), il più grande ostacolo allo scambio di dati tra stakeholder è l’assenza di infrastrutture digitali”, evidenzia lo studio.
I benefici della Data Economy
La ricerca passa in rassegna i benefici che la Data Economy potrebbe portare all’Italia. Si parte dall’economia. Secondo lo studio, lo sviluppo della Data Economy e la diffusione della Banda Ultra Larga saranno in grado di generare, nello scenario base, tra i 52,2 e i 78,4 miliardi di euro all’anno, con un’incidenza sul PIL in crescita dal 3% al 4,1%.
Sotto il profilo occupazionale invece saranno sempre di più le aziende che vorranno assumere “professionisti dei Dati”. Si parla, nel dettaglio, di 1,6 milioni di lavoratori attivi in questo ambito nel 2030 a fronte degli attuali 600mila. Passando alle infrastrutture, la tecnologia Cloud potrà abilitare risparmi di energia e benefici ambientali rispetto alle tradizionali infrastrutture on-premises, con riduzioni in media del 74% nelle emissioni di CO2.
Benefici enormi riguarderanno anche le imprese. “Grazie al Cloud, è possibile focalizzarsi sulle attività a maggiore valore aggiunto e gestire in maniera flessibile i carichi di lavoro, con un impatto positivo medio del +35% sulla produttività del lavoro e una riduzione media del time- to-market del -64%; il sistema pay-as-you-go, il passaggio a costi variabili e l’esternalizzazione della gestione delle piattaforme informatiche al provider permettono poi di ridurre i costi IT in media del -29%; non da ultimo, il Cloud si basa su strumenti e meccanismi che aumentano la resilienza e abilitano meccanismi più efficaci ed efficienti di disaster recovery, garantendo una riduzione media del -57% nell’IT downtime”, specifica il report.
Il piano Colao
Le potenzialità della Data Economy sembrano essere ben chiare al Governo. Non a caso, a inizio settembre, il ministro della Transizione Digitale, Vittorio Colao, ha presentato il piano per il “cloud nazionale”, in base al quale tra il 2022 e il 2025, il 75% della pubblica amministrazione italiana dovrà trasferire tutti i suoi dati e i suoi servizi sul cloud. L’obiettivo - ambizioso - del progetto è quello di rendere “la nuvola italiana” sicura e autonoma, blindando anche le strutture fisiche (vale a dire server e cavi) allo scopo di renderle inaccessibili a Paesi ostili. Il tutto solo l’egida di un Polo Strategico Nazionale.
Il cloud “è una casa moderna per i dati degli italiani. La definirei così. Una casa flessibile, con stanze diverse, ma tutte con lo stesso livello di sicurezza”, ha affermato il ministro Colao, spiegando che la strategia italiana punta a garantire “sicurezza, salvaguardia ma anche modernità, efficienza e stabilità a livello nazionale”.