Dall'osservazione alla visualizzazione: le competenze per il data storytelling

Dall'osservazione alla visualizzazione: le competenze per il data storytelling

Prima ancora della forma grafica, un buon lavoro di data visualization si fonda sulla capacità di cogliere il senso delle informazioni contenute nei dati

24/09/2021 , tempo di lettura 3 MINUTI

Il data storytelling è un settore che, contrariamente alle apparenze, ha una storia che ci porta indietro di almeno un paio di secoli. Uno dei primissimi esempi, infatti, è una rappresentazione, fatta a metà del 1800 da Florence Nightingale, infermiera e prima donna membro della Royal Statistical Society in Gran Bretagna, sulle cause di morte dei soldati ricoverati in ospedale durante la Guerra di Crimea. La scoperta, messa in evidenza dalla sua raccolta dati sul campo, era che le cause principali dei decessi non erano dovute a ferite riportate sul campo di battaglia, ma alle cattive condizioni igieniche degli ospedali. All’epoca, per avere un’idea della situazione, i medici operavano senza guanti e non si lavavano le mani, mentre la biancheria dei letti non veniva sterilizzata tra un utilizzo e l’altro. La conseguenza delle osservazioni e delle descrizioni visuali di Nightingale è stata l’introduzione dei protocolli igienici che oggi diamo per assodati nei luoghi di cura.

Le fondamenta della visualizzazione

La prima capacità da riconoscere a Nightingale fu proprio la capacità di osservare, liberandosi da quello che poteva essere un limite importante, ossia il fatto che all’epoca la gestione degli ospedali era strutturata in quel modo, e di porsi qualche domanda potenzialmente scomoda. Dall’altra, un altro aspetto fondamentale da considerare quando si usano i dati è che, se da un lato ci aiutano a fotografare un fenomeno, dall’altra non sono esenti dalla possibilità di essere manipolati o anche solo equivocati in modo involontario.

Ragion per cui, la costruzione di un buon data storytelling richiede come requisito fondamentale la comprensione dei dati. Quindi nozioni di matematica e statistica, familiarità con i fogli di calcolo che ci aiutano ad applicare filtri e formule e capacità logica per “unire i puntini” per raccontare il significato di questi dati ai destinatari.

La forma giusta

Come sostiene Alberto Cairo, professore di Visual Journalism, all'Università di Miami, la data visualization è “un lavoro di artigianato”: non ce ne sarà mai una uguale a un’altra e questa differenza nasce proprio dal fatto che ogni volta si lavora su dati, contenuti e rappresentazioni specifiche esattamente come ogni racconto è diverso da un altro.

La costruzione del racconto deve essere solida, quindi, per consentire di scegliere e strutturare l’aspetto visuale più efficace, che pur nella sua importanza non deve prevalere sul senso di quello che si vuole comunicare, o peggio ancora, distorcerlo. Questo vuol dire scegliere i grafici più adatti: una torta per visualizzare le parti di un insieme, una linea per rappresentare l’andamento di un trend nel tempo o un grafico a barre per rappresentare e confrontare i valori per diversi tipi di categorie (per esempio l’appartenenza degli spettatori a diverse fasce d’età), per citarne alcuni. Ma non solo: la competenza grafica richiede anche un’appropriata scelta dei colori, delle icone, dei font che contribuiscono a comunicare il racconto dei dati e a renderlo più o meno efficace. 

Il dato non è, contrariamente a quanto si potrebbe pensare a prima vista, un elemento freddo e asettico. Un buon lavoro di data visualization richiede di saper cogliere lungo il processo tutte le storie che il dato ci illustra e combinarle, come illustra un meme che circola in rete, per passare dai singoli mattoncini a una costruzione di senso.


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