Cosa fa l’agente letterario. Intervista a Silvia Meucci
Rappresentare gli autori, gestirne i diritti, fare scouting: questi sono solo alcuni degli aspetti più conosciuti del lavoro dell'agente letterario, le cui responsabilità, in realtà, sono molto più estese e trasversali di così.
Figura chiave nell'editoria, solitamente – ma non necessariamente – l’agente letterario lavora in un'agenzia e si occupa di curare tutte le parti gestionali di un libro, dai diritti d'autore primari a quelli secondari. È grazie al suo lavoro che scrittori di talento sconosciuti arrivano fino alle nostre librerie. Come si fa, però, a diventare agente letterario?
Un percorso prestabilito non esiste: la strada viene tracciata man mano e la si crea soprattutto con l’esperienza. Tuttavia, uno dei requisiti fondamentali per lavorare in questo campo è conoscere a menadito il mercato editoriale, italiano ed estero. Per questo abbiamo progettato un corso ad hoc, “Scoprire e promuovere un autore: corso per agente letterario”, insieme a Silvia Meucci, che abbiamo intervistato per l’occasione. Meucci lavora in editoria dal 1989 ed è fondatrice dell’Agenzia Letteraria Meucci Agency.
Quello dell’agente letterario è un mestiere impossibile da improvvisare, frutto di un percorso e un bagaglio che ci si costruisce lungo la strada. Ci puoi raccontare quali sono le tappe imprescindibili per poter diventare agenti letterari?
A meno che una persona non abbia chiaro fin da subito che vuole abbracciare questo mestiere, e allora si offre per uno stage in un’agenzia letteraria, è un lavoro che ha un avvicinamento per tappe. Non basta essere lettori forti per fare l’agente. Bisogna avere “naso”, un po’ come per il mondo del profumo, e questo “naso” va esercitato sul campo. Come? Sicuramente leggendo, certo, ma poi, se si vuole scoprire nuove voci, bisogna essere dotati di una forte empatia, essere curiosi ed essere attenti alle dinamiche del proprio tempo per intercettare idee e temi che potrebbero essere interessanti. Poi si capisce se dietro quell’idea c’è la possibilità di una scrittura, di una voce. Ovviamente si parte sempre da un criterio del tutto personale e soggettivo. Ma bisogna un po’ fidarsi di sé stessi, del proprio intuito.
Nella tua carriera, prima di fondare la tua agenzia letteraria, a un certo punto ti sei trasferita in Spagna e, solo dopo molti anni, sei tornata in Italia. Nel tuo lavoro di oggi di cosa hai fatto tesoro dei tuoi “anni spagnoli”? Quanto è importante conoscere la filiera del libro anche al di fuori del proprio Paese?
Fondamentale. Conoscere la filiera è davvero, a parer mio, utilissimo per capire il lavoro di tutti i soggetti coinvolti nella realizzazione e promozione di un libro. Avere diretta esperienza di come si lavora in altri Paesi è utile per comprendere le dinamiche che spingono un editore straniero a investire o meno in quel dato autore o autrice. I criteri di “traduzione” di un’opera sono molto diversi dai criteri che si seguono per acquistarla per un mercato nazionale. Avere l’esperienza estera aiuta a comprendere le dinamiche di mercati diversi e distanti dal nostro.
Qual è la parte più complessa quando si rappresenta un esordiente?
Farlo uscire alla luce in tutta la sua forza. Un manoscritto va lavorato a lungo, rivoltato, corretto e ricorretto. Attenzione: è un lavoro che, dietro suggerimento di un agente, fa l’autore, a patto che sia collaborativo. Bisogna convincerlo che non basta aver messo il punto finale per essere presentato agli editori e trasmettergli che è un lavoro di squadra. E che probabilmente, una volta che il libro si ritiene finalmente maturo per essere presentato, dovrà – se acquistato – ricevere un’ulteriore valutazione e correzione (macro e microediting, in gergo).
Come definiresti il rapporto fra agente letterario e l’autore che rappresenta?
Un rapporto di “coppia”, di complicità e fiducia reciproca. E come ogni rapporto tra persone, può anche facilmente rompersi, nonostante il percorso fatto e i traguardi raggiunti. Ma funziona così. Il rischio deve essere corso.
Nel tuo lavoro serve avere anche molta empatia: bisogna riuscire a porsi in una posizione di ascolto per poi maneggiare con cura quello che è il vissuto di un’altra persona. Questo può portare a fare evolvere la relazione, ma qual è il confine fra rapporto umano e lavorativo?
Non c’è confine. Diventa tutt’uno. Chi scrive consegna materiale intimo, sia che si tratti di romanzo sia che si tratti di saggistica. In ogni caso, l’autore mette del suo – più intimo e viscerale in un romanzo, più specifico in un saggio. Quindi bisogna avere cura. E una grande pazienza.
Quando si decide che un manoscritto è pronto per essere presentato a un editore?
È pronto quando si arriva a formulare questa frase: “potrà piacere o non piacere, ma non ci sono errori strutturali, errori macro”. Quello che non digerisco è quando si riceve un rifiuto come “bello, ma…”, dove quel “ma” significa, per esempio, che il romanzo inizia troppo lentamente; oppure il finale è tirato via; o ancora ci sono parti che avrebbero dovuto essere “tagliate”. Ecco, questa è una risposta irricevibile. Dobbiamo evitarla a tutti i costi.