Cos'hanno in comune i dati e il metodo scientifico?
Entrambi amano l’esattezza e il giornalismo - e sono protagonisti di molti corsi online di Feltrinelli Education.
Appena prima della pandemia, la “Science Section” del New York Times ha festeggiato 40 anni di pubblicazioni.
Con l'occasione, la versione digital della sezione ha riproposto undici domande che sono rimaste senza risposta, nonostante tutti questi anni di studi scientifici, innovazione e divulgazione: curiosamente, una di queste è "Perché non abbiamo un vaccino per tutto?".
Il pezzo è stato scritto nel 2018 da Donald G. McNeil Jr., una delle firme più importanti del New York Times per quanto riguarda scienza e salute, già esperto di AIDS, ebola, malaria, influenza aviaria e suina, la Zika e, poco dopo aver firmato quell'articolo, anche di Covid-19, che ha coperto live per la testata.
Covid-19 ha inaugurato infatti l'epoca dell'infodemia, com'è stata definita dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): per la prima volta, abbiamo una quantità di informazioni e dati in tempo reale che è quasi impossibile processare con esattezza - soprattutto in tempo per il tg delle 20.
Giornalismo e data storytelling
Se la scienza e i dati hanno una cosa in comune, è che entrambi amano l’esattezza. Non a caso quando il data journalism è nato, nei lontani anni Sessanta, si chiamava “precision journalism”.
Perché da subito, per questo tipo di giornalismo che realizza inchieste o reportage ricorrendo agli strumenti della matematica, della statistica e delle scienze sociali, si sono dimostrate centrali le capacità di individuare pattern in gruppi di dati grezzi, di organizzarli in informazioni e di stenderne la comunicazione in modo efficace, al fine di consentire una corretta divulgazione della ricerca.
Si chiama data storytelling ed è il campo di expertise dei giornalisti del Visual Lab del gruppo editoriale GEDI, dai quali possiamo imparare molto.
Scienza e giornalismo nell'era delle pandemie
Oggi il data mining, cioè l’insieme di tecniche e metodologie per estrarre informazioni utili da grandi quantità di dati attraverso metodi automatici o semi-automatici, “è ormai una parte abituale del buon giornalismo d’inchiesta” sostiene Deborah Blum, Direttrice del Knight science journalism program al MIT di Boston.
“E stanno aumentando le realtà che investono nel giornalismo scientifico, in particolare a causa di Covid e cambiamento climatico”, i temi caldi dei nostri anni – nonché due dei fenomeni su cui abbiamo più dati a disposizione – “ma i reporter devono conoscere la scienza e prestare la massima attenzione ai fatti”.
Più che un consiglio, è un obiettivo, un mandato. Come ha sottolineato il giornalista e accademico statunitense Jeff Jarvis in un thread su Twitter: “il giornalismo non ha idea di come trattare la scienza come processo. I giornalisti vogliono risposte definitive, mentre la scienza controlla e ricontrolla costantemente le proprie domande, arrivando a più domande. Quindi i giornalisti distorcono la percezione pubblica della scienza, rendendo un pessimo servizio”.
Possiamo dire con quasi assoluta certezza che, a parte l'avvento di Internet, questi due anni siano la più grande rivoluzione che la comunicazione scientifica abbia mai dovuto attraversare. Ne abbiamo parlato qualche tempo fa con il chimico Davide Bressanini e il biologo Alessandro Tavecchio, entrambi divulgatori, che hanno sottolineato le difficoltà che ha incontrato la comunità scientifica non solo nell'analizzare ma anche nel condividere una crisi che sta(va) avvenendo sotto i nostri occhi, sulla quale bisognava prendere decisioni politiche e mediche sempre più rapidamente.
Forse questa situazione non si è ancora risolta, ma qualcosa potremmo avere già imparato.