Come funziona una storia?
La struttura in tre atti (da Cenerentola a Star Wars)
Ci sono tanti modi di scrivere una storia, e nessuno è più giusto di un altro. Perché, alla fine, una storia deve fare una cosa sola: funzionare. Non c’è bisogno di spiegare cosa vuol dire una storia che funziona: tutti, più o meno, abbiamo presente la sensazione. Ci stiamo divertendo, stiamo evadendo dalla realtà (e nemmeno ce ne accorgiamo), stiamo provando emozioni e tante altre cose insieme.
Le storie che funzionano sono quelle che non riusciamo a smettere di ascoltare, leggere e guardare: speriamo sempre che il prossimo libro che compreremo, o la prossima serie televisiva che seguiremo funzionino fino alla fine. Se non vanno, le buttiamo insieme a tutte quelle storie che sono state, più o meno, delle perdite di tempo. Non meritano altro. Ma quelle che funzionano ce le ricordiamo per sempre. Allora si capisce perché in molti si sono chiesti: ma perché una storia funziona? Cosa c’è dietro?
Parola di Aristotele
Il primo a provare a rispondere è stato Aristotele. Nella Poetica, il filosofo di Stagira ha teorizzato che le storie altro non sono che catene di cause ed effetti, dove ogni azione provoca necessariamente una reazione. È stato il primo a intravedere un percorso di cambiamento nello stato interiore ed esteriore del protagonista: qualcosa che noi oggi chiamiamo “Arco del personaggio”. Ed è riuscito anche a individuare delle fasi ricorrenti all’interno di molte storie. Tre fasi, nello specifico: un inizio, una parte di mezzo, una fine. Noi oggi diremmo “tre Atti”.
I tre atti
Aristotele attesta qualcosa che esisteva da tempo nelle storie del suo tempo, e chissà da quando, ma da allora la struttura in tre atti è via via diventata il mezzo più usato per creare storie che funzionano: da Eschilo ad Aaron Sorkin, passando per Plauto, Boccaccio, Shakespeare, Jane Austen e Beppe Fenoglio.
I tre atti sono le tre fasi principali della storia: una fase di preparazione, in cui vengono presentati i personaggi principali della storia e i loro problemi, una fase di scontro/lotta, durante la quale si susseguono i tentativi dei protagonisti di raggiungere obiettivi e risolvere problemi, e una fase di risoluzione, dove scopriamo finalmente se i tentativi terminano con un successo o una sconfitta.
Ma scendiamo ancor di più nel dettaglio.
Agganciare il lettore
Il compito del primo atto è quello di presentare a spettatori o lettori un nuovo universo narrativo, ma il rischio che si corre è sempre quello di elencare, di “esporre” tutto ciò che si ritiene importante: il passato dei personaggi, i loro pensieri e i loro problemi. Un buon primo atto deve invece catturare l’attenzione dello spettatore. Deve gettarlo nel mezzo dell’azione, trasmettergli i problemi dei protagonisti e le loro emozioni. Lo deve agganciare, per non lasciarlo più andare. Ecco, se vogliamo rubare un’immagine per rappresentare il primo atto, quell’immagine sarebbe un gancio.
Sul campo di battaglia
Il secondo atto è interamente dedicato al conflitto. È un campo di battaglia, dove i protagonisti incontrano di continuo nuove sfide da affrontare e nuovi personaggi: alcuni gli danno una mano, altri provano a fermarli a tutti i costi. I tentativi dei protagonisti si susseguono e crescono di intensità insieme ai rischi. Talvolta hanno successo, altre volte si rivelano dei fallimenti. Di solito, al termine di questa lunga carrellata, i protagonisti vengono sonoramente battuti e si ritrovano molto vicini alla sconfitta finale. Qualcosa dentro di loro si è rotto e sembra che tutto sia perduto: è il momento di morte.
La risoluzione
Infine c’è il terzo atto, la risoluzione, che comincia quando i protagonisti ritrovano la motivazione per tentare di raggiungere i propri obiettivi. Ora tutte le loro energie sono convogliate in un ultimo sforzo. La tensione aumenta e, insieme, il ritmo della storia: i protagonisti hanno imparato dai propri errori, sono diventati migliori. E anche gli spettatori sono cambiati: sono del tutto coinvolti, le loro aspettative sono al massimo, vogliono sapere come andrà a finire. Siamo al vertice della storia, il climax. È il momento in cui nei film sportivi i nostri beniamini – che abbiamo visto mangiare la polvere nel primo atto – scoprono il proprio valore e battono rocambolescamente la fortissima testa di serie. Ma è anche il momento in cui Thanos, in Infinity War, schiocca le dita cancellando metà delle forme di vita nell’universo Marvel e vanifica tutti gli sforzi degli Avengers. Una volta che il climax esaurisce il conflitto principale, la storia si avvia verso il finale. I protagonisti si congedano e prendono posto nella loro nuova realtà: niente sarà più come prima.
Talento o strumento?
Questa struttura non è la sola, e usarla non assicura il successo (se è il successo che interessa). Ma è riscontrabile in un numero talmente elevato di storie che dei dubbi vengono: è innata? È questo il modo in cui in Occidente vediamo il mondo e scriviamo storie? O ci siamo talmente abituati, nei secoli, a questo tipo di scorrimento e di equilibrio tra esposizione e azione, che ora non siamo in grado di rinunciarvi? Non lo sappiamo. Aristotele non ce l’ha detto.
Ma la struttura in tre atti resta quello che, in fondo, è sempre stata: uno strumento, niente di più. Uno strumento per chi scrive storie, come la penna e i post-it, per costruire trame coerenti, animate da conflitti centrali e popolate da personaggi attivi, disposti a mettersi in gioco, affrontare gli aspetti più spaventosi del proprio sé, rischiare fallimenti e superare limiti per realizzare i propri sogni.