Cultura: come e perché allargare il pubblico delle attività culturali

Allargare il pubblico delle attività culturali: come e perché?

Storie e tecniche di audience development, per prove ed errori

Anna Chiara Cimoli
Anna Chiara Cimoli
02/03/2021 , tempo di lettura 5 MINUTI

Che cosa vuol dire oggi lo sviluppo dei pubblici, e che senso può avere ragionare in questi termini nelle contingenze che viviamo? Si tratta di uno spostamento di paradigma culturale che deve prescindere dalla pandemia, pur nella consapevolezza dello sforzo intellettuale che questo slittamento comporta, non in una logica millenaristica ma nell’accoglienza di nuovi orizzonti possibili.

La conoscenza degli strumenti a disposizione degli operatori che lavorano all’incrocio fra il pubblico con l’arte visiva (questa la mia prospettiva disciplinare) è il punto di partenza. L’occasione di un fermo forzato potrebbe essere utile per provare ad allineare linguaggi e obiettivi, nel rispetto delle diversità di approcci.

Mi occupo da molti anni di musei e del ruolo del patrimonio come agente di cittadinanza. Questo concetto va, dal mio punto di vista, depurato di ogni retorica associata all’elevazione spirituale che il confronto con la bellezza dovrebbe garantire, dunque da un’idea di cultura come insieme complesso di canoni estetici, codici, linguaggi che vanno riconosciuti e apprezzati un quanto tali. Ricordate quando al liceo ci portavano a vedere Shakespeare o Pirandello in certe terrificanti matinée? Quali circostanze hanno fatto sì che continuassimo ad andare a teatro nonostante quel punitivo battesimo? 

La presa in conto del valore del patrimonio per la crescita personale, condizione per lo sviluppo di una politica accorta di audience development, passa dunque attraverso una serie di circostanze felici: di perdono (esagero, ma ci capiamo) dei nostri familiari e dei nostri insegnanti, che se siamo stati fortunati ci hanno trascinato, recalcitranti, per città e musei. E prima o poi li ringrazieremo. Ma proviamo a immaginare un catalogo di quelle circostanze felici: avranno tra i loro ingredienti la facilità di accesso, la chiarezza delle informazioni di contatto, la presa in conto - fin dalla scelta delle parole - delle diversità di livello culturale, alfabetizzazione tecnologica, aspettative delle persone che vorremmo coinvolgere. E poi, ancora, la progettazione di strumenti di mediazione della visita (se parliamo di un museo); la progettazione di uno spazio di riflessione in itinere ed ex-post per lo staff (chi invitare a quel tavolo?); la valutazione dell’apprendimento – inteso in senso lato, su un globale piano emotivo-cognitivo, senza punitive interrogazioni a caldo, come ancora qualche volta accade - e molto altro ancora.

Porto un esempio concreto: recentemente la cooperativa di cui sono socia, ABCittà, ha progettato “Interpreti della diversità”, un percorso di interpretazione di una collezione di arte sacra contemporanea, la GASC di Villa Clerici a Milano, lavorando con gruppi di adolescenti e di adulti sia italiani che con background migratorio. 

Il progetto, nato per essere sviluppato in presenza nelle sale del museo, ha dovuto essere declinato in corsa per trasferirlo online. Una storia molto comune. Eppure, come avviene per la didattica a distanza, la chiarezza del percorso e l’ascolto delle esigenze dei partecipanti hanno permesso l’emersione di una serie di conversazioni preziose, che attengono alle aspettative, alle storie personali e familiari, al bisogno di confronto con le opere d’arte come momento “alto”, e paradossalmente anche alla strana intimità che si può creare nell’incontro dietro lo schermo che si rivela un dispositivo per alcuni tutelante. Un incontro che forse la presenza fisica non avrebbe permesso.

Ecco che il focus si è spostato dalla dimensione identitaria più evidente (e, forse, meno interessante: quello della provenienza nazionale, solo un tassello dell’identità individuale e a volte non il più rilevante) a una più sottile e urgente. In fondo, perché uno studente di liceo o una giovane imprenditrice rumena o ancora uno studente di una scuola di italiano per migranti dovrebbe interessarsi di una collezione di arte sacra cristiana, proprio in questo momento? L’attenzione di metodo è quella di studiare degli strumenti che possano raccogliere le aspettative dei diversi tipi di pubblico, differenziandoli chiaramente; incoraggiarli a partecipare, valorizzarne il contributo, restituire loro gli esiti del percorso e poi, nel tempo, misurare l’impatto dell’azione; immaginare modi per prolungarlo in termini di nuove relazioni da coltivare, costruendo alleanze basate su un vero dialogo. 

Provo dunque a sintetizzare alcuni dei temi sul tavolo quando si affronta un progetto culturale dal punto di vista dello sviluppo del pubblico. Questo elenco, che non vuole essere esaustivo né sovrapponibile alla vasta letteratura sul tema, scaturisce da una visione situata nel presente e proveniente dalla pratica:

  • non solo aver chiaro chi si vuole raggiungere, ma conoscerlo bene. Per quanto impegnativa in termini di tempo e risorse, questa fase è ineludibile; e rischia anche di essere una delle più divertenti. Ore al telefono, chiacchierate, passeggiate, derive psicogeografiche e chi più ne ha più ne metta: è una parte faticosa ma fondamentale del processo, altrimenti né potremo avere la fiducia dei nostri interlocutori né sapremo come parlare con loro. Si tratta di porsi in una postura di ascolto e di avere gli strumenti per raccogliere ed organizzare le informazioni che scaturiscono da quell’ascolto;
  • predisporsi a operare su tempi lunghi, contro ogni consumismo e ansia di quantificazione, che va respinta al mittente con forza;
  • concepire il patrimonio come un corpus che acquista senso nella sua decifrazione e interpretazione, sempre legata a un’epoca e alle sue istanze. Di nuovo, è un processo evolutivo e lento; 
  • interrogarsi su come raggiungere il pubblico (outreach): esistono nel mondo esempi di pulmini Volkswagen che raccolgono pezzi di collezioni museali, barche attraccate sulle banchine di un fiume, curatori in bicicletta, e ovviamente tutti gli strumenti dei media; ma più importante di tutto è la progettazione di strumenti ad hoc, capaci di intercettare il pubblico che ci interessa (e torniamo al primo punto di questo elenco);
  • valutare l’impatto;
  • progettare forme per garantire la continuità e lo sviluppo nel tempo di un progetto per dar seguito e sostanza alle attese che auspicabilmente si sono create.

Questa catena di azioni, concepita in modo sincronico o diacronico, può applicarsi a molti processi: nell’ambito museale, penso per esempio alla scrittura dei testi e all’interpretazione più in generale; alla partecipazione a processi di rappresentazione di un contesto, che sia un’opera, un luogo fisico o un tema (si veda il progetto di costruzione di MUBIG, il museo di comunità del quartiere di Greco a Milano); alla tessitura di relazioni fra il museo e il suo territorio; all’affermazione di uno spazio di cittadinanza attiva (la cultura come strumento di empowerment individuale e collettivo).

Si tratta di uscire da certe rigidità che ancora trattengono l’ambito della progettazione culturale, di mescolarla con tante discipline, di riflettere collettivamente su alcuni fondamentali etici (le retribuzioni minime, l’equilibrio fra i generi, la rappresentanza della diversità, la questione dell’età), di dialogare con le università e i centri di formazione, di potenziare l’esistente resistendo forse alla tentazione della dispersione. Una strada da costruire rinunciando alle retoriche a buon mercato che indeboliscono la disciplina, ma rafforzando gli strumenti che possono aumentarne l’impatto sociale effettivo. 


Ringraziamo Anna Chiara Cimoli per il contributo.

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